Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è un uomo intelligente, preparato, garbato, misurato ed anche di bell’aspetto; un avvocato onesto e capace, quello a cui vorresti affidare l’affare più delicato. Un docente universitario titolato e brillante.
Te lo immagini in convegni internazionali, dove interviene sicuro, col suo inglese fluente, senza incertezze, senza sbavature.
Ma Giuseppe Conte non è solo questo! E’il medico rassicurante che vorresti incontrare quella maledetta sera quando, per un improvviso dolore al petto, sei sopraffatto dalla paura; il marito affidabile che ogni madre vorrebbe per la propria figlia; il padre affettuoso, che incontri al cinema col suo bambino: in una mano tiene del popcorn, nell’altra una coca gigante.
Insomma, Giuseppe Conte somiglia un pò al personaggio di Ulrich del romanzo di Robert Musil, uno dei capolavori della letteratura mondiale del Novecento: una specie di uomo ideale, che riassume in sé tutte le migliori qualità.
Ma, così come in Ulrich, in Giuseppe Conte c’è qualcosa che non torna e te ne accorgi subito: ti guarda incredulo, perplesso, smarrito.
Non sembra per nulla convinto di essere davvero il Primo Ministro dell’ottavo paese più industrializzato del mondo.
E, così, hai come la sensazione che questo dandy decadente viva come alienato dal mondo reale, dai problemi del paese, dalla crisi economica, dalle insidie della politica, privo di autentici interessi, preda di una sorta di “patologia del volere”: una specie di Dorian Gray dei monti Dauni che, come Ulrich, sembra essersi preso una “vacanza dalla vita”, vittima indolente della sua brillante passività.