Don’t cry…Argentina

by Michele Lanna
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Appena giunto a Buenos Aires dall’aeroporto “Ministro Pistarini”, per arrivare in centro, percorri l’Avenida “9 de Julio”, la strada più importante della città, che deve il suo nome al giorno dell’indipendenza argentina, il 9 Luglio 1816.

E’ il viale più largo del mondo ed occupa in larghezza circa 1 km, con ben sette corsie in ciascuna direzione.

Da qui, si raggiunge facilmente “Plaza de Mayo” il cuore pulsante della città.

Il mese “de Mayo” cui fa riferimento è quello del 1810, che vide l’insurrezione del “Popolo” argentino contro i conquistadores spagnoli.

Ma “Plaza de Mayo”, ci racconta anche una storia più recente.

Questa è il luogo tristemente famoso dove s’incontravano le “madri” dei desaparecidos che, in silenzio, testimoniavano il loro strazio per la “scomparsa” dei propri figli, assassinati dalla feroce dittatura del generale Jorge Rafael Videla.

E, così, appena arrivato a Buenos Aires, vieni subito proiettato in una dimensione fortemente emotiva, complice un’incredibile architettura urbana in cui si mescolano gli stili più disparati.

Nella stessa strada puoi trovare, allineati in fila indiana, palazzi dallo stile più differenti: art decò, art nouveau, neoclassico, grattacieli avvenieristici e terribili palazzoni anni 70.

Forse anche per questa ragione, tra gli architetti più importanti del mondo ci sono quelli argentini.

E, così, mentre cammini per le “quadre”, comincia a sgretolarsi il primo pregiudizio: qui di sud-americano non c’è nulla. Quasi nulla.

Buenos Aires è una città profondamente europea, un misto tra Roma, Parigi, Madrid, con un tocco coloniale… un pizzico di Avana Vecchia.

Insomma, una metropoli ordinata e romantica, con una vita culturale fervente che sembra apparentemente aver fatto i conti con il tragico passato.

Ma subito ti accorgi che non è così: è ancora troppo vivo nei racconti delle persone.

Ad amplificare questa percezione iconografica si aggiunge l’idea preconcetta del visitatore europeo, che immagina una democrazia sudamericana incompiuta, un popolo affamato in rivolta e i foschi scenari di un’economia malata.

Eppure, sin da subito, nonostante i pregiudizi che ti sei portato dietro, un altro aspetto che colpisce molto è quello di trovarsi di fronte ad una democrazia solida, dove i diritti dei cittadini, ed in particolare quelli delle donne e delle minoranze, sono garantiti in maniera adeguata, con una magistratura indipendente ed efficace.

Qui le persone, a differenza di quello che si può sperimentare in altri paesi reduci da regimi dittatoriali, non hanno paura della “Policia”.

Resta sullo sfondo la questione economica che sarebbe inesatto definire di “crisi”, per quanto rappresenta un fenomeno oramai drammaticamente strutturale.

Ancora negli ultimi mesi, inflazione e dollaro forte hanno fatto crollare il peso, rendendo sempre più vivo lo spettro del default che rischia di riportare il paese ai giorni drammatici del 2014, o a quelli del 2001; per non parlare del Luglio del 1989, quando l’inflazione argentina raggiunse il tasso mensile del 200%.

E, così, soli due anni di governo del nuovo presidente Mauricio Macri, hanno gettato nuovamente il Paese sull’orlo di un crisi economica: tariffe del gas e della luce aumentate del 300%, molti licenziamenti nel settore pubblico, pensioni abbassate, assistenza sanitaria ridotta, prezzi alle stelle per i generi alimentari.

È difficile credere come l’Argentina, così ricca di materie prime, sia ciclicamente in crisi economica.

E, poi, questa fragilità economica produce (almeno) due effetti.

Il primo attiene alla dimensione pratica. Se accendi la TV, quale che sia il programma, prima o poi si parla di economia e, comunque, in sovraimpressione troverai sempre il tasso di cambio Dollaro/Peso. Sarà anche per questo, che tutti gli argentini s’intendono di economia.

E così ti può capitare che persone, anche assai modeste dal punto di vista culturale, ti parlino di inflazione, di Fondo Monetario, di tassi di cambio.

L’altro effetto della crisi economica riguarda la dimensione più profonda, esistenziale.

Gli argentini vivono profondamente il qui ed ora.

Per loro il futuro ha una sostanza molto più evanescente che per noi occidentali.

Gli argentini ti dicono che se hanno un peso, lo spendono, perché il giorno successivo potrebbe valere la metà. E questo, ovviamente gioca un ruolo determinante, sulla capacità di risparmio dell’Argentina, ma anche sulle sue capacità di investimento e d’impresa.

Un altro aspetto che percepisci subito in maniera invadente e un “populismo” dilagante, indipendente dai partiti politici e dalle ideologie: quasi un dato endemico, strutturale.

La sensazione è che qui i partiti politici possano essere solo più o meno populisti, ma giammai non esserlo affatto.

Del resto, tra i monumenti da vedere a Buenos Aires, oltre alla “Casa Rosada”, il “Cimitero della Recoleta”, il “Cabildo”, la “Cattedrale”, il “Teatro Colon”, l’ ”Obelisco”… c’è il “Palazzo della Radio”, con sopra l’immagine stilizzata di “Evita” Peron.

Perché in Argentina il “Populismo” è un fenomeno che va oltre la società, l’economia, la politica e la cultura, per diventare un fenomeno quasi “antropologico”.

E, così, lo “justicialismo” creato da Juan Domingo Perón durante la sua prima presidenza del 1946, con l’apporto ideologico e, soprattutto, d’immagine di sua moglie “Evita” sembra essere sedimentato nel profondo, sembra costituire una matrice identitaria.

Probabilmente, la fortuna di tale movimento risiede nel suo straordinario sincretismo, capace di mettere insieme socialismo, patriottismo, terza via economica del Fascismo italiano, ma anche democrazia e sovranità popolare.

Al di là della simbolica che faceva riferimento ai “descamisados”, ad indicare simbolicamente la provenienza dagli strati popolari della società, il generale Perón si ispirò anche alle politiche economiche keynesiane e dirigiste del New Deal, istituendo un sistema con forte presenza dello Stato in regime di economia mista privato-pubblico, coniugato a piani quinquennali sul modello sovietico.

Anche sul versante internazionale il Peronismo fu sostanzialmente sincretico: il distacco dall’influenza storica degli Stati Uniti e, al contempo, una politica terzomondista, di neutralismo e di non allineamento nei confronti dei due blocchi della guerra fredda.

E, così, tale ideologia ha permeato nel profondo la società argentina e la maggior parte dei partiti politici sia di destra che di sinistra, seppure con differenze tra peronisti conservatori come Carlos Menem e socialisti nazionalisti come Néstor Kirchner e sua moglie Cristina Fernández, fautori del “Kirchnerismo”.

Il sociologo antifascista Gino Germani, emigrato in Argentina nel 1934 dopo essere stato incarcerato per “propaganda sovversiva” in Italia, ha osservato come nel Peronismo comparissero tutte le caratteristiche politiche del Fascismo: terza via, socialismo e sindacalismo nazionale, corporativismo e socializzazione, autoritarismo e populismo.

Eppure, la natura sostanzialmente ibrida del “Populismo peronista” ha fatto si che, in Italia tale movimento politico riscuotesse successo contemporaneamente sia nella destra che nella sinistra radicale.

Lotta Continua sul proprio quotidiano definì il Peronismo come “uno dei fenomeni sociali, politici e ideologici più incompresi del nostro secolo”, mentre il congresso del Movimento Sociale Italiano a Roma nel 1949 si apriva con tutti i delegati che gridavano ”Viva Perón !”.

Lo stesso presidente Mauricio Macri, eletto nel 2015 dopo aver vinto il primo ballottaggio della storia argentina contro il candidato peronista Daniel Scioli, di fatto sta portando avanti politiche “populiste” sia in campo economico che sociale, sebbene di stampo liberal conservatore.

Insomma, come ha scritto Marco Olivetti, su “Avvenire” qualche anno fa, a proposito del Kirchnerismo, ” (esso) è l’ennesima reincarnazione del peronismo: quella “socialisteggiante”, dopo quella originaria, vagamente fascistizzante, di Juan Domingo Perón ed Evita; quella degli anni Settanta, liberal-conservatrice, del Perón morente e della sua terza moglie Isabelita; e quella iper-liberista di Carlos Menem negli anni Novanta”.

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