Una piccola parte di persone potenti detiene la gran parte delle ricchezze del mondo, mentre una enorme massa di persone impotenti vive con gli avanzi concessi da padroni opulenti.
Ce ne sarebbe abbastanza per dire che ci stiamo occupando del medioevo, dell’antico Egitto, o forse del primo ottocento, quando i movimenti di lotta operaia cominciarono a pretendere condizioni di lavoro migliori e paghe più dignitose. Purtroppo invece ci stiamo occupando dell’oggi, del 2019, e della società delle disuguaglianze.
La Costituzione italiana dice che l’attività economica privata è libera, ma deve rispondere a finalità sociali. La nostra Carta fondamentale dice anche che il salario dei lavoratori deve consentirgli una vita piena, libera, dignitosa, per sé e per la propria famiglia.
Si tratta di articoli che valgono quanto tutti gli altri, ma sono inapplicati, nel silenzio generale e nella connivenza di tutte le istituzioni repubblicane. La legge del più forte sembra bastare, spingendo chi cade ai margini di questa società senza cuore, né anima, a perdere la propria identità, ad andare da un’altra parte, a cercare altrove.
L’elogio della mobilità, dell’emigrazione, dell’adattamento, ha finito per costruire il mito dell’opportunismo, che diventa qualcosa di totalmente diverso dalla cultura dell’opportunità. Il messaggio che promana dalle istituzioni pubbliche italiane è che se non ce la fai devi arrangiarti, che lo Stato non è in grado di difendere la tua comunità, il tuo tessuto produttivo, le fabbriche e le attività che caratterizzano un territorio.
Si chiude, si va altrove, dove conviene, si delocalizza e il lavoratore deve essere flessibile, andare qui, andare là, spostare i figli qui e là, vivere, o meglio, sopravvivere, qui è là.
La società che manda questi messaggi considera lecita la mercificazione dell’identità umana, parlando di lavoro e di individui come di elementi di scambio, mera domanda, a cui risponda una mera offerta. Se qualcuno può lavorare gratis, in qualche paese sperduto della coscienza e della geografia, non esiste legge, convenienza o convivenza che mi obblighi a non sfruttarlo. Poco male per chi perde il posto: farà altro.
E così, di rincorsa verso l’altro, svanisce il concetto di legame tra uomo e territorio, tra uomo e identità professionale. Si crea una società di cacciatori di reddito e non ci dobbiamo stupire se Marx l’aveva già pronosticato, quando aveva analizzato il rapporto, totalmente inumano, che esiste tra capitale e lavoro nella società capitalistica occidentale.
Le risposte che l’Italia ha dato a questo gigantesco processo di disumanizzazione progressiva, sono deboli e confuse. Dare reddito a chi promuove attività di impegno e valore sociale sarebbe una misura doverosa ed equa, ma per farlo occorre un programma politico preciso, che si occupi di valorizzare processi di creazione di ricchezza sociale diffusa, dando ai cittadini la prova che educare al civismo genera benessere, economicamente apprezzabile. Purtroppo in Italia la dimensione civica e pubblica della convivenza è affidata a parate e retorica, ma in concreto si fa pochissimo per diffondere questi valori.
La prova di ciò è il costante trionfo elettorale degli egoismi. Assistiamo alla rincorsa verso la difesa del proprio giardino, della propria casa, del proprio pezzo di mondo, mentre tutto il resto, lì fuori, appare distante e inconciliabile con la dimensione strettamente personale della politica e della socialità. In questo contesto non è possibile realizzare un avanzamento dei diritti di tutti e di ciascuno, perché le risposte politiche che si offrono sono in linea con la brutalità dominante: danno a pochi, si occupano di definire il confine tra quei pochi e tutti gli altri, e agli altri dicono “arrangiati”.
E’ come se per le radio passasse una sola, oscena canzone, che grida che gli altri sono loro, non siamo noi. Il tutto, si intende, con il rosario in mano. E’ il corpo di Cristo, l’amore per il prossimo, i pargoli intatti ed intangibili, che diventano concime per i pesci. Amen.