Con qualche giorno di ritardo, ma in tempo per l’inizio della novena di Natale, ho fatto, come tutti gli anni, il presepio.
Vi ho sistemato con cura i pastori di terracotta comprati, nel corso di questi anni, da Ferrigno, a san Gregorio Armeno. Nella grotta, però, ci sono sempre quelli, non bellissimi ma più emotivamente evocativi, che i miei genitori comprarono, sempre a Napoli, alcuni mesi dopo la mia nascita.
Ma non è questo l’argomento principale, Che è, viceversa, la consapevolezza del nostro essere, ormai, probabilmente fuori tempo in virtù di quella particolare fenomenologia, l’eclissi del sacro in una società totalmente mondanizzata, che tutto avvolge, trascinandosi dietro, sempre di più progressivamente, i nostri anni.
Su di essa, non sarebbe inutile fermarsi ogni tanto a riflettere.
Ora è accaduto che, mentre spiegazzavo la carta per le montagne, o fissavo, con la consueta, fantozziana difficoltà, le lucine nelle casette, acconciando alla meglio il muschio secco e quello fresco, il bravissimo Rosario Fiorello, dallo schermo della televisione, nell’altra stanza, declamasse, a supporto di un celebre marchio della telefonia, la frase che sintetizza al meglio il senso profondo dei nostri anni, cogliendone e svelandone, senza più neppure gl’inutili, pelosi infingimenti, l’essenza.
La battuta finale dello spot, “la gente vuole solo i regali”, è il tormentone che sta bombardando la testa degli spettatori in tutto il periodo natalizio.
E’ la recita del “credo” durante la celebrazione liturgica della fede del consumo.
E’ il leit-motiv wagneriano del melodramma di cui, quotidianamente, ci viene imposta la rappresentazione.
E’ chiaro che la sostituzione dell’antica sacralità natalizia con i nuovi feticci (l’immensa colata di merci che, nei centri commerciali, le cattedrali della post-modernità, potrebbe addirittura provocare, in qualcuno, una rinnovata “sindrome di Stendhal”) non sia cosa di questi giorni.
Ripenso, a questo riguardo, a una battuta significativamente anticipatrice di Natale in casa Cupiello. Il capolavoro eduardiano è del 1931 ma, come spesso accade, la sensibilità dell’arte acchiappa, prima e meglio di mille analisi sociologiche, i mutamenti in atto. Luca Cupiello, il padre innamorato del presepio, le sta tentando tutte per trasmettere, al figlio poco attento, il medesimo amore per la ritualità cristiana della rappresentazione della natività.
“LUCA: Qua poi faccio il laghetto, col pescatore, e dalla montagna faccio scendere la cascata d’acqua. Ma faccio scendere l’acqua vera! TOMMASINO: Già, l’acqua vera! LUCA: Sì, l’acqua vera. Metto l’“interoclisemo” dietro, apro la chiavetta e scende l’acqua. Te piace, eh? TOMMASINO: No! LUCA: Ma io non mi faccio capace! Ma lo capisci che il presepio è una cosa religiosa? TOMMASINO: Una cosa religiosa con l’ “interoclisemo” dietro?”
Nella scettica conclusione di Nennillo è possibile leggere già una forma di demitizzazione del “sacro” che “smonta” la dimensione fantastica del racconto per immagini, scoprendo cosa ci sia realmente dietro.
In fondo basterà un semplicissimo, dozzinale “interoclisemo” per distruggere e gettare a mare mille anni di poesia. Il problema è, a questo punto, sapere se, avendo squarciato il velo di Maya, le nostre vite siano diventate realmente migliori. Ma sarà il caso di consolarci. Ormai, “la gente vuole solo regali”.
Di una vigilia di Natale della mia infanzia, quella del 1958, ho un ricordo vivido e consapevole. Nel tardo pomeriggio è già buio e, il salotto di casa è appena illuminato da una luce fioca, per niente rinforzata dalle altrettanto fioche lucine del presepio. Ci mettiamo a tavola. Siamo in quattro. Prima dei buonissimi vermicelli con le vongole cucinati da mia madre, dell’insalata di rinforzo, del baccalà fritto e del capitone, mio padre ci obbliga a una posta di rosario.
La ripetizione delle avemaria un po’ mi pesa però so, che, ancora una, e mangerò qualcosa di particolare, e a mio padre leggerò la mia prima lettera di Natale, accuratamente sistemata sotto il suo piatto. La ripetizione del rito, nella sua disarmante semplicità – le avemaria, il presepio, i vermicelli con le vongole, ossia il senso religioso del cibo – è la testimonianza del sacro.
Ma, intendiamoci, il rituale, e nella nostra fattispecie, quello cristiano, ha valore se esso si sposa con le scelte di vita.
Non è da escludere che anche molti cristiani abbiano irresponsabilmente contribuito alla scomparsa del sacro. Ma non nella direzione in cui pensano, tanto per essere chiari, i tanti che giudicano papa Bergoglio una sorta di traditore delle verità della tradizione, con la sua “mania” di restituire finalmente concretezza, cinquant’anni dopo, alle costituzioni conciliari. “La Chiesa non è un museo da custodire ma un giardino da coltivare”, aveva profeticamente proclamato, nel discorso d’apertura del Vaticano II, l’11 ottobre del 1962, Giovanni XXIII. La scomparsa del sacro coincide con l’oblio generalizzato del messaggio del Natale in cui, per chi crede, viene annunciato il mistero dell’ingresso di Dio nella storia attraverso la strada che egli stesso ha scelto di percorrere che dalla grotta di Betlemme porta direttamente alla croce del Calvario. Sono questi i simboli della regalità di Gesù che sceglie di nascere povero tra i poveri, rifiutato, senza la possibilità di un albergo e, ancora, costretto a lasciare la sua terra, per sfuggire allo sterminio decretato da un potere malvagio, dissennato, violento.
Il presepe racconta il mistero dell’incarnazione del Logos calandolo nella quotidianità della storia con le arti e i mestieri, le donne e gli uomini, gli angeli con le tube e gli animali del cortile e della transumanza e perfino, come negli straordinari, seducenti presepi napoletani, le anime pezzentelle dei morti e la moresca, ossia il gruppo di musici turchi che sono arrivati dal mare.
In breve, a voler rispettare la sacralità della tradizione popolare ma, soprattutto, il buon annuncio cristiano, nel presepio dovrebbe trovare più facilmente posto il neonato, nato l’altro ieri e, a solo un giorno di vita, già ad attraversare il mare, che non noi, con le nostre angosce frustranti e inspiegabili paure.
In ogni caso, le statuette di terracotta sono belle e non ci creano, a differenza degli uomini e delle donne in carne ed ossa, problemi di sorta. Magari qualcuna ce l’avranno pure regalata. O qualche buontempone cristiano avrà ordinato, per regalarla, quella del vecchio Hitler, a uno dei maestri pastorai di san Gregorio Armeno. Che non s’è fatto mica scrupolo. Tanto per lui, per il maestro pastoraio, non c’è nessuna differenza tra la statua del bambinello di terracotta e quella di chi i bambini in carne e ossa ordinò di gasarli.
Ma che discorsi andiamo facendo a Natale? In fondo, ha ragione Fiorello: la gente vuole solo regali.