Il welfare dei nonni è il principale strumento a cui le famiglie italiane fanno ricorso per sostenere i figli.
Il benessere del nostro paese sembra un gigantesco sistema di vasi comunicanti, che lega, in un rapporto non sempre sano, il sommerso e il legale, il pubblico ed il privato, i nonni ed i loro nipotini.
L’Italia di questi tempi è un nodo gordiano, una sorta di guazzabuglio postdemocristiano in cui si fa sempre più fatica ad identificare una linea di sviluppo chiara, comprensibile, a causa di un modo di essere del paese che sembra sempre avvinto da insormontabili compromessi al ribasso.
Il mito della crescita, del miracolo italiano, dei discendenti che conquistavano spazi preclusi ai loro padri, ha presentato un conto salato ed iniquo già agli inizi degli anni 80.
Da quel momento il belpaese ha vissuto una sorta di saturazione, di ripiegamento su se stesso, che non ha offerto prospettive di rilancio, di predominio del nuovo, di progresso.
Ben prima che Bauman ci avvisasse sui rischi della retrotopia, eravamo già piombati in una nostalgica celebrazione dei bei tempi andati, che è quasi sempre preludio di fasi decadenti della storia umana.
Ci manca disperatamente un’idea di futuro, proiettata verso i giovani, incentrata sull’esaltazione del ruolo fecondo della gioventù, che deve essere aiutata a rendersi autonoma, ma che invece viene schiacciata, sempre più spesso, dal peso di meccanismi che la tengono ai margini del gioco.
L’elemosina degli avi è diventata così la panacea del malessere che pervade larghi strati di precaria disperazione, un anestetico potente, rassicurante, diabolico, che probabilmente impedisce agli italiani di oggi e di domani di pretendere con lucidità e ferocia ciò che un patto sociale sano dovrebbe garantirgli di diritto: il diritto ad una vita piena, felice e migliore di quella dei propri predecessori.
La rassegnazione a stare peggio di quando si stava meglio, al di là del divertente gioco di parole, è ormai una cappa che ammutolisce ogni fremito rivoluzionario.
I vasi comunicano, distillano gocce di assistenzialismo, confondono l’idea di una cittadinanza piena con quella diminuita, che sembra essersi appiccicata sulle nostre schiene, come quegli zainetti delle didascalie, nelle ricerche demoscopiche, che raffigurano il fardello di debito pregresso, gravante sulle spalle di ogni italico bimbo che si affacci alla vita.
L’acqua che sgorga dai privilegi abusati e disseta le labbra rinsecchite dei “ragazzi padre”, è mista col cloroformio, è veleno, che non toglie mai l’arsura, che non può dare la spinta per combattere per la “costituzionalizzazione” del futuro.
Già, il futuro: quante volte sentiamo parlare di questo, da parte dei pacati e canuti rappresentanti delle nostre istituzioni. Appelli alla difesa del nostro futuro si susseguono, con ciclica e bonaria puntualità.
Come le comete, fanno giri immensi, si nascondono nello spazio interstellare, per ripresentarsi alla bisogna, più lucenti di sfavillante caducità di quanto si possa anche solo immaginare. Battiti di ciglia, lampi nel buio di una politica che fallisce le strategie di lungo periodo, regalandoci solo speranze, sospiri, languidi surrogati.
Eppure nessuno dovrebbe avere più dubbi sull’obbligo di considerare il nostro posto nel mondo come una fonte di obblighi, non solo verso ciò che oggi ci circonda, ma anche verso quello che ci sarà.
Costituzionalizzare il futuro, inserire il diritto al futuro nella nostra Carta fondamentale, sarebbe dunque non un banale e retorico esercizio di stile, ma rappresenterebbe un passo in avanti importantissimo per la consapevolezza che dovrebbe tenere insieme qualsiasi patto sociale tra “cives”.