Quando si discute dei numeri che rappresentano i margini del fenomeno relativo alla violenza contro le donne, si registrano, con sempre maggiore frequenza, tre tipologie di reazioni.
Un’avversione negazionista, secondo cui la questione sarebbe sostanzialmente ingigantita dai media e pilotata dalle correnti femministe.
Secondo questa prospettiva, infatti, vi sarebbe un contro fenomeno taciuto e gravissimo: la violenza sugli uomini.
Ogni anno sarebbero danneggiati milioni di maschi (per la giornalista Barbara Benedettelli sarebbero almeno cinque ogni anno), schiavi della violenza psicologica femminile manifestata anche sotto forma di meccanismi di controllo e manipolazione sui figli.
Tutto nel silenzio colpevole degli organi di stampa.
A contraltare si oppone una sacralizzazione assolutizzante secondo cui, nella costruzione narrativa, la vittima di violenza assume un connotato martirizzante il cui valore simbolico viene asservito ad altre battaglie. Basti pensare a come siano tristemente famosi i nomi di Desirèe e Pamela per il solo reiterare ipnotico dei loro nomi affiancati a episodi specifici di droga e immigrazione, con il completo spoglio delle evidenze specifiche dei singoli casi.
Parimenti, per motivi diametralmente opposti, anche il rutilare del nome di Violeta Mihaela Senchiu, può essere inserito in questa tendenza.
Fu, infatti, questo femminicidio del 3 novembre scorso a essere usato a contraltare della notorietà delle due citate prime vittime rispetto a tutte le altre di cui certo non si ricordano i nomi.
Non da ultimo, nel quotidiano si assiste al proliferare di una terza tendenza, una banalizzazione normalizzante, con un richiamo a numeri che assumono quantitativi radicalmente diversi sui vari mezzi di comunicazione e che vengono indicati con margini talmente ampi da essere sostanzialmente inutili in un’ottica di delimitazione del fenomeno.
In questo filone si inseriscono quelle frasi stereotipate che recitano “più di 60 (70) vittime da gennaio a oggi”, “1 donna su tre in Italia ha subito violenza” oppure “una donna ogni due/tre giorni in Italia viene uccisa” associata, generalmente, al racconto di “amori malati” o “liti per relazioni sentimentali”.
Se, oggi, ciascuno di noi facesse mente locale e si chiedesse quante donne sono state uccise nel 2017 per femminicidio (altra parola su cui molto ci sarebbe da dire in luogo della sua, più precisa, femicidio) ben pochi saprebbero indicare un numero più o meno esatto, ma moltissimi ricorderebbero di aver letto da qualche parte le frasi predette.
Negli ultimi cinque anni il problema della diffusione dei numeri, invece di assumere contorni sempre più delineati e ben definiti, è stato alternativamente fagocitato da una di queste tre tendenze, asservito all’una o all’altra reazione, aumentando nel dibattito una sensazione di sfiducia e di incertezza dei margini della questione.
Anche parlare di numeri quindi è un’operazione di per sé rischiosa e va condotta con la massima cautela e precisione.
Il rischio è che l’asservimento all’una o all’altra istanza sfumi i contorni di un fenomeno la cui attenzione deve essere generale, generalizzata, non certo generica e approssimativa.
Valentina Pisanty nel testo “Abusi di Memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoa”, mette in guardia dai rischi delle tre declinazioni (che lei per prima ha categorizzato e che qui ho semplicemente mutuato applicandole alla questione della violenza sulle donne), intuendo che il modo in cui si offre la narrazione di un evento tanto traumatico possa diventare oggetto di “devozione, un prodotto di marketing o addirittura, all’occorrenza, strumento contundente”, come afferma la stessa Pisanty rispetto alla memoria della Shoa.
I tre dispositivi, continua la semiologa allieva di Eco, – negazione, banalizzazione e sacralizzazione – vivono “interconnessi come i pezzi di un puzzle”.
Accade anche rispetto al fenomeno del femminicidio.
I negazionisti traggono legittimazione dalla condanna di una lettura tanto sacralizzante quanto banalizzante dei femminicidi che per i primi è fenomeno che in realtà non avviene, che riguarda altre civiltà, altre culture.
Costoro traggono vantaggio dall’attenzione che i banalizzatori e i sacralizzatori individuano spesso in modo ossessivo sui numeri, per gettare una luce su di un fenomeno innegabile, mentre i banalizzatori riconducono la rappresentazione del femminicidio a standard narrativi stereotipati che rendono l’evento commercializzabile, fruibile, oppure “lo spogliano dei suoi attributi specifici”.
In questo senso la geniale intuizione della semiologa assume il valore di un vero e proprio metodo di analisi dell’epistemologia di un fenomeno violento quale quello di genere, e aiuta a mettersi in guardia dai possibili rischi di tendenze che, oggi più che mai, stanno diventando di gran moda.
A questo punto la banalizzazione dell’evento trascina con sé non solo i numeri ma trascina l’evento ai soliti “refrain” che informano la cultura patriarcale e di cui siamo intrisi sin dall’infanzia.
Un rapporto malato, un amore sbagliato, una lite per motivi sentimentali…
In questa incertezza occorre, oggi più che mai, uno spazio politico neutro, un osservatorio nazionale, che raccolga i dati e li filtri distinguendo ogni categoria che afferisce alla violenza di genere e che precisi quali casi siano femicidi e quali non lo siano, che dia numeri ma che non dimentichi le storie ed i casi che li compongono, che faccia da interlocutore credibile tra l’opinione pubblica e le istituzioni.
La normativa esistente pur perfezionabile, non paga una radicale inadeguatezza sostanziale, è la sua applicazione che sconta gap largamente colmabili.
Occorre un processo che non sia esso stesso una forma di violenza, che non generi vittimizzazione secondaria, servono operatori giuridici e forze di polizia specializzati in materia.
In tal modo risulterebbe assolutamente coerente, circostanza nota e consueta a chi si occupa della materia, ma non a tutti gli operatori oggi in gioco, il fatto che esista l’effetto “luna di miele”, che una donna, cioè, nonostante sia vessata da anni, fatichi a procedere giudiziariamente contro il marito e, paradossalmente, voglia, a momenti alterni, rimanere con lui.
Serve senz’altro una maggior attenzione ai reati sentinella e una previsione operativa che “attenzioni” la famiglia.
Ogni volta che si sia in presenza di percosse o lesioni denunciate, non solo dovrebbe esistere, come esiste, la possibilità per la denunciante di domandare ordini di allontanamento, ma anche si dovrebbe poter ottenere una “messa in osservazione e tutela” costante attraverso i servizi.
Un monitoraggio costante che possa riferire al PM con immediatezza qualsivoglia aggravarsi della situazione o intemperanza del marito.
Molto si potrebbe fare, ma un atteggiamento che non è più tollerabile è l’uso del termine “emergenza”, perché non abbiamo bisogno di codici rossi, ma di rivedere subito il concetto di normalità.
Anche quella statistica.