Lascia stare, così gli dai solo visibilità. Devi ignorare; accendere i riflettori non fa altro che dar loro una mano, fai il loro gioco.
Perché soffiare su di un fenomeno che si sgonfierà da sé? Sono goliardate, gravi, questo è sicuro, ma sono solo episodi di follia momentanea. Non temere: non sono nostalgici richiami al nazifascismo.
Al più sono eccessi volgari e grevi, non reati. Dammi retta. Puntare il dito non è la strada da seguire…
Sospesa tra suggerimenti e desideri contrastanti, mi chiedo che fare.
Tacere per evitare che l’eccessivo vociferare riporti alla ribalta tempi che credevamo di aver dimenticato o affrontare le questioni di petto, schierarsi e sollevare il tappeto per vedere quanto sporco c’è sotto davvero?
Nel lasciar correre, nel minimizzare, c’è sempre un rischio potenziale: far sì che la polvere si cristallizzi e che, da piccolo granello, in un tempo non galantuomo, diventi ostinata incrostazione.
Ricostruiamo l’iconografia: sorriso largo, atteggiamento baldanzoso, giovialità grezza. Cornice: Predappio, 28 ottobre 2018, luogo in cui, annualmente, Forza Nuova commemora la Marcia su Roma.
Una militante indossa una maglietta nera con la scritta bianca. “Auschwitzland”.
Sopra di essa il profilo dell’ingresso del noto campo di concentramento. Il tutto racchiuso in un arco che, nella sigla dei cartoni Disney, con cui la scritta “Auschwitzland” condivide stile e carattere tipografico, è rappresentata da una luminosa scia di polvere di stelle.
Un giornalista intervista la donna.
Cosa rappresenta, oggi, per lei Mussolini?
Selene Ticchi, 48 anni, risponde con il consueto refrain.
“Di Mussolini non va dimenticato cosa ha fatto per l’Italia.”
Il dittatore, dice con ferma convinzione e volto solare, “ha dato slancio” sia al nostro paese sia agli italiani; “negli ultimi 70 anni, dopo di lui, nulla è più stato fatto” per questo Paese.
In cosa sia consistito questo slancio e cosa Mussolini abbia fatto, non è dato sapere. Selene Ticchi non ce lo racconta.
Segue una serie di eventi: Leu presenta un’interrogazione parlamentare, la Disney condanna pubblicamente il fatto e preannuncia investigazioni sull’accaduto, il Museo Polacco minaccia denunce, la militante viene sospesa.
Il Ministero dell’Interno per ora non risponde.
Tutto questo in un clima politico in cui Alessandra Mussolini, dieci giorni prima, aveva pubblicamente dichiarato che chiunque avesse infangato la memoria del nonno sarebbe stato, senza mezzi termini, querelato.
A farle eco una patriottica Giorgia Meloni, la quale, con un video ad elogio dei morti italiani nella prima guerra mondiale, propone di abolire il 25 aprile in quanto celebrazione nazionale “divisiva”.
La memoria del Duce, non passa lo Straniero, maledetti neri, austriaci d’oggi…
Granelli, granelli di polvere che si attaccano l’un l’altro e si accumulano, si incrostano e sollevano il tappeto, tronfi di esserci e di essere visibilmente riconosciuti.
Selene Ticchi, aspramente criticata, dichiara di aver fatto “un errore a tirar fuori quella maglietta dall’armadio” e che, pur riconoscendo lo sbaglio, non capisce il perché di “un caso internazionale”.
Organizzata però una telefonata esca con un fasullo camerata, (trasmessa durante la puntata del programma radiofonico La Zanzara, il 30 ottobre 2018), la militante di Forza Nuova, ora sospesa, convinta di condividere affinità politiche con il falso interlocutore (tale “Italo Destro”), nella conversazione privata afferma di non essere pentita per aver indossato quella maglietta. Affatto.
“Che il problema dell’Italia sia la mia maglietta mi sembra assurdo”; “Questo buonismo purtroppo ce l’abbiamo, stendiamo un velo pietosissimo” dichiara stentorea.
Spero che non ti sia pentita, la incalza Italo Destro, e lei con voce risoluta afferma “assolutamente no”, “posso averla messa in un momento sbagliato tutto quello che vuoi”. “Però la mia libertà, c’è la mia libertà, mi sembra che nella Costituzione esista”.
Il pensiero meschino non solo si autoassolve, ma trova giustificazione nella Carta fondamentale della democrazia antifascista e si nobilita promuovendosi ad anelito di libertà.
Dalla polvere dei forni crematori all’arco della polvere di stelle: l’ agghiacciante parabola di una diffusa disumanità. “Posso averla messa in un momento sbagliato”. “Però la mia libertà, c’è la mia libertà, mi sembra che nella Costituzione esista”.
Queste parole atterriscono, almeno quanto la maglietta.
Nella Ticchi, non c’è alcuna condanna sulla natura della scritta, non traspare vergogna, imbarazzo, senso di colpa. C’è l’ opportiunistico riconoscimento pubblico di un fallo da ammonimento, la sordida e onesta negazione nel privato.
Semmai quello non era il momento giusto per indossare quella maglietta, come se un’ occasione opportuna per farlo comunque esista e sia plausibile.
Ma difendere una rappresentazione abominevole di un orrore è una forma di libertà?
La libertà, dunque, comprende anche il diritto di inneggiare in maniera così abietta ad uno sterminio di massa in cui uomini, donne e bambini, quando non morivano per stenti e torture, venivano gassati con un pesticida, così come si fa con gli insetti?
La libertà di espressione può spingersi sino ad associare, in un raduno pubblico e dalle finalità politiche, il piu’ famoso parco di divertimento per bambini e per famiglie al più efficiente e spietato lager nazista in cui persero la vita cica un milione e mezzo di persone?
No, questa non è libertà.
L’elogio dell’orrore, l’inno allo sterminio di massa è un abuso della libertà e non trova consenso neppure a livello giuridico.
La Legge Mancino, altro limite alla degradazione del concetto di libertà, all’art. 2, vieta espressamente manifestazioni esteriori od ostentazioni di simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che propagandino idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico.
Chiunque compia atti di tal natura è punito con la reclusione sino ad un anno e sei mesi o con la multa sino a 6.000 euro. La libertà non po’ trasformarsi in un crimine d’odio, un reato cioè fondato sul pregiudizio culturale o ideologico che motiva la discriminazione di alcune persone sulla base di un’ appartenenza religiosa, etnica, linguistica, o sessuale che sia.
La libertà non può trasformarsi in un veicolo improprio per la propaganda di pensieri aventi valenze violente, coartanti, razziste.
L’Olocausto non è un film di Dario Argento, non è uno spettacolo per famiglie, l’Olocausto è il peggior abisso in cui si siano mai gettati, oscillanti tra indifferenza conveniente e volontà esplicita, molti paesi Europei.
Alla libertà non possiamo appendere, giustificandolo, ogni nostro infame rigurgito d’odio che definisci alcuni come superiori ad altri, è un bene troppo prezioso per abusarne così impunemente.
Selene Ticchi, nella conversazione con l’infame camerata, legittima il suo comportamento sulla base della libertà di espressione sancita dall’art. 21 della Costituzione.
Paradosso classico: la Carta fondamentale dei valori democratici e antifascisti viene spesso chiamata a difesa da chi nega che, per l’Italia e per gli Italiani dopo la morte del Duce, non sia stato fatto nulla di buono…
Allora la domanda da porsi diventa più complessa e articolata.
Può esserci libertà espressiva senza un pensiero compiuto e maturo? E’ possibile un pensiero politico privo di memoria collettiva, pubblicamente costruita ed elaborata nella sua complessità con l’aiuto delle testimonianze e con le analisi degli storici?
Come è possibile che il ritornello stanco, falso e logoro “sì, ma ha fatto anche cose buone” divenga oggi marchio identificativo di grossa parte della chiusura dei dialoghi della gente comune sul fascismo, sull’apertura al nazismo, cesura di ogni confronto che, nel vuoto, lascia spazio e alimenta le peggiori moderne aberrazioni?
Come è potuto accadere questo?
Io credo che oltre alla sacrosanta indignazione per una terribile maglietta, oggi più che mai, si debba avviare un largo e diffuso dibattito pubblico condotto con serietà e profondità, e rivolto all’analisi di cosa sia stato il fascismo ed il nazifascismo in Italia, sul perché ancor oggi la presunta creazione della tredicesima e della pensione (falso!) edulcorino e soppiantino le gravissime responsabilità del fascismo nell’ aver soppresso le libertà civili di stampa, di riunione e di parola, nell’aver creato la polizia segreta e i Tribunali speciali, nell’essersi alleato nel 1935 con il nazismo di Hitler, nell’aver promulgato nel ‘38 le leggi razziali antisemite, nell’aver permesso e ordinato i rastrellamenti razzisti e fascisti a danni di ebrei, zingari omosessuali e lesbiche.
Occorre riportare ed inquadrare il nazifascismo nel flusso della storia, per avere un conseguente simbolico che restituisca alla memoria un’immagine che non sia né banalizzata né apologeticamente sacralizzata. Il fascismo ha diviso gli uomini in classi di appartenenza indicando quelle che, per scopi politici, si potevano tranquillamente sacrificare.
La gestione della memoria della cancellazione fisica di milioni di persone è tesa oggi tra la sacralizzazione e la negazione, e la ricerca che va operata per non cadere nella banalizzazione della resa solo emotiva della sofferenza richiede una scelta narrativa che non contempla né l’indifferenza né un mero ritorno retorico.[1]
Lasciar correre, dimenticare l’orrore, lasciare in giro come polvere sacche di ignoranza non combattute, sottacere il dialogo, porta ad un simbolico in maniche corte fortemente strumentalizzabile.
Usufruibile come una T-shirt, nauseabondo come l’effetto di un pugno allo stomaco.
Se non si torna ad un inquadramento analitico della storia, una sola maglietta è in grado di fare strame di un’intera memoria collettiva. Si permette il plauso ad un sentire meschino che non riconosce universalmente come oltraggiosa e perseguibile la negazione dell’Olocausto.
Nei lager nazisti si consumò la più grave forma di cesura della civiltà intesa come fine della convivenza umana; fu un massacro di comunità, fu un orrore che colpì pubblicamente e individualmente.
Accadde e assunse proporzioni inimmaginabili grazie alla connivenza indifferente di persone e di poteri. Uomini comuni e funzionari gerarchizzati condivisero un antisemitismo colluso, un disprezzo del diverso e dell’altro che mai assunse simili proporzioni in Europa.
Ma non fu l’opera di uno solo, fu il risultato della collusione e dell’indifferenza di molti, questione che va analizzata e sezionata con la medesima chirurgia con cui Hannah Arendt prova a spiegarci quella banalità del male che ci portò nel baratro.
Mi chiedo quindi se c’è meno responsabilità nel non opporsi, lasciando correre, sottacendo, non puntando il dito contro il fanatismo ideologico piuttosto che nel esercitarlo in modo acritico negandolo o dissacrandolo con una sovrapposizione di un simbolico fantastico e spensierato come quello richiamato dal marchio Disney.
Mi domando se ci sia meno responsabilità nell’immobilità politica piuttosto che nella creazione volontaria della coalizione del malcontento.
Voltarsi dall’altra parte, lasciar correre è forse meno biasimevole del partecipare?
Mi domando cosa ne sappia io dell’ Olocausto e di certo non posso che concludere di non saperne abbastanza . Qualche libro, un po’ di filmografia, e il ricordo di qualche immagine che ricorre comunemente negli anniversari di commemorazione pubblica.
Forse occorrerebbe che la complessità di una verità storica tanto grave e ancora per molti controversa, avesse almeno lo spazio di una storicizzazione continua, meno emozionale, più diffusa e analitica, coinvolgente, in particolare rispetto al pre ed al post Olocausto.
Se ancor oggi parole di odio e di disprezzo riempiono ampi spazi di dibattito collettivo e le dimenticanze individuali fagocitano l’attenzione degli ignavi, è dovere di ciascuno di noi non assistere passivamente a rigurgiti nazionalisti mascherati da sovranismi nazionali e difesa del territorio.
Non deve accadere ancora, per nessun essere umano, non possiamo permetterlo alla nostra umanità.
Io, oggi, l’unica maglietta che indosserei è quella dell’immagine di quest’articolo (1948, Polonia, fotografia di David Seymour, Magnum Photos, tratta dal libro Storia della Shoah, UTET, Edizione Speciale 2008) che vede una bambina, Teresa, cresciuta in un campo di concentramento e, successivamente, ospitata in un centro per bambini con disturbi mentali… Sulla lavagna sta disegnando la sua casa.
E no, visti i tempi, non sarebbe una svista dell’abbigliamento…
[1] “I tre dispositivi – negazione, banalizzazione e sacralizzazione della memoria – sono interconnessi come i pezzi di un puzzle. Così, i negazionisti, desiderosi di dimostrare che la lobby ebraica tiene in scacco la comunità internazionale con il ricatto della Shoah, traggono una legittimazione spuria dalla condanna delle letture sacralizzanti e banalizzanti di un genocidio che per essi non è mai avvenuto. Avvantaggiandosi dell’attenzione ossessiva che (sia pure in modi e per motivi diametralmente opposti) i sacralizzatori e i negatori dirigono sulla memoria del genocidio, i banalizzatori dal canto loro riconducono la rappresentazione della Shoah a formati narrativi stereotipati che rendono la memoria più facilmente assimilabile e commercializzabile, oppure la spogliano dei suoi attributi specifici allo scopo di equipararla ad altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo, secondo la logica revisionistica per cui se tutti sono colpevoli allora nessuno lo è per davvero. Infine, nel tentativo di proteggere (per mezzo di tabù e interdizioni) la memoria della Shoah dagli abusi dei negazionisti e dei banalizzatori, i sacralizzatori finiscono paradossalmente per alimentare entrambi i fenomeni. La sacralizzazione subentra infatti quando qualcuno rivendica un monopolio sulle interpretazioni e sugli usi legittimi della memoria stessa: “di ciò non si deve parlare”; “di ciò non si deve parlare così”, ovvero: “di ciò si deve parlare” – “il dovere della memoria” – ma solo nei modi e con i toni prescritti…(omissis)… In sintesi, ciò che i tre dispositivi hanno in comune è la tendenza a sottrarre la Shoah dal flusso della storia, per proiettarla nella dimensione simbolica della memoria la quale, come ha osservato Maurice Halbwachs, è sempre funzionale agli interessi e ai progetti di chi la coltiva. “ Intervista a Valentina Pisanty a cura di Cesare Panizza intorno ad “Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah”, Mondadori 2012.
L’intervista completa al link
http://www.isral.it/web/pubblicazioni/qsc_51_10_pisanty.pdf