Parlando di questa saturazione degli spazi, dei tempi, delle presenze, proviamo a fare il contrario, a raccontare i vuoti.
Siamo pieni di vuoti che vengono riempiti male. Finiamo dunque per raccontarci un sacco di cose futili, ripetitive, convenzionali, che nascondono una noia profonda, radicata, verso l’assenza di un senso più alto e ampio. E’ il trionfo del vuoto, che finisce con il divenire elemento folkloristico e vincente, parte di una storia che non cambia, identica a se stessa, ciclica.
Il racconto della cronaca è ormai un esercizio di tediosa normalità. L’assurdo, il grottesco, l’ingiusto, vengono masticati, sputati, grattati via da un’alienazione che si maschera ogni istante in modo cangiante, ma non porta a casa nessuna socialità.
Nel flusso di parole ci infilo l’immagine di un ragazzo ferito, sparato, immobilizzato, che faccio fatica persino a pensare.
Scaccio l’idea facilissima che potevo essere lui e mi ritrovo ancora più solo, isolato, ammutolito, vittima di una direzione che sfugge a qualsiasi validità. In questo giorno luminoso è scesa in piazza l’Italia che lavora e che chiede lavoro, ed anche qui è venuto fuori il grande vuoto dei nostri tempi, l’assenza della dignità e della sicurezza per i lavoratori.
Una stupida e ghignante ragione inversa si fa beffe delle aspirazioni di chi vorrebbe farsi una famiglia, avere una casa, veder crescere i propri figli in un mondo giusto, pulito, in cui poter coltivare il diritto alla felicità. Cala una cortina di silenzio beffardo, perché “felicità” è una brutta parola, non si può dire, non si può pronunciare. Chi la insegue è un perditempo, un inefficiente zuzzurellone.
Sono ripetitivo anche io. E’ difficile questa settimana finire il pezzo, è come se sul foglio volessi lasciare dei graffi, anch’essi annoiati, mentre osservo le lettere che riempiono lo schermo di questo laptop vetusto e consunto, con il terrore di aver dimenticato la grammatica.
Fronteggio infatti questi articoli con la paura di scrivere qualche bestialità, dimentico le regole dell’espressione e occhieggio di sottecchi quel mostro di Crusca, strabuzzo gli occhi, distorco la testa, forzatamente, da un’altra parte.
E’ da qualche mese che non sento più parlare dell’ISIS. Ci avete fatto caso? Parlando di vuoto, intendo. Spariti, non se ne hanno più notizie. Dove saranno finiti? Che ne è stato di questa guerra in medio oriente? Medito ampi giri sul sito della CNN, anche per soddisfare la mia voglia lussuriosa di ascoltare l’americano e confrontarlo con l’inglese, scolastico ed urticante, che parlano le testate made in UK.
Mi rivedo, sommerso dalle scadenze, povero in canna, avvocato senza più clienti e lavoro, sudo, è un incubo, occhi aperti e chiusi, abbraccio Giulia, pianifico una dieta restrittiva che non avverrà mai. U. S. Ultima Sigaretta. E pezzi da otto, come urlava il pappagallo del vecchio Flint.
Il vocabolario impolverato di una biblioteca seminascosta nel quartiere ebraico mi ricorda che “anonimato” è una cosa superba. Sparire, come il diavolo, come la nebbia di Austerlitz, e che mi venga un colpo se vado su google per vedere se l’ho scritto giusto.
Fronteggio lo spazio bianco che mi separa alla fine delle battute che mi spettano con l’angoscia crescente di chi vorrebbe essere altrove, mentre quel vuoto, questo vuoto, cercano di farmi sempre meno impressione, mano a mano che ci lascio impresse le carezze dei miei polpastrelli.
Il vuoto è il protagonista di questo piccolo pro memoria, ed è un luogo troppo poco pensato, una possibilità troppo sottovalutata. Cosa sarebbe la musica senza il silenzio che separa i suoni? Poi ho sbirciato, l’avevo scritto giusto. E’proprio Austerlitz.