“IO SÒ DI TORRE MAURA” E GIUDICO, NON REAGISCO. GIUDICO.

E’ bastato uno scatto, solo uno per sgranare gli occhi difronte ad una scena piena di senso. Un senso osceno. Tanti panini imbustati a terra, sul marciapiede. Guardi meglio e vedi quello che

non credi. Il pane sotto le scarpe, il pane calpestato.

E’ PROPRIO COSÌ.

Ti informi rapidamente e contestualizzi lo scatto.

E’ la rabbia degli abitanti di un quartiere di Roma, dal nome mai sentito prima per chi vive in un’altra città, magari ignoto anche a chi vive a Roma, Torre Maura. La rabbia esprime, inconsulta, la reazione contro l’assegnazione di 70 persone in un centro del quartiere. Alcuni volontari avevano portato del pane a quelle persone, costrette dalla paura a rimanere chiusi aldilà dei cancelli del centro. Quel pane, offerto da persone ad altre persone, è stato rovesciato per terra, calpestato, maciullato con i piedi.

Il senso osceno dello scatto diventa sacrilego.

La scena ha tutti i contorni del disumano. È un gesto delle fiere, anzi più insopportabile perché i protagonisti non erano fiere. Erano persone. Persone che calpestavano il pane, persone che lo avevano regalato, persone che lo avrebbero potuto ricevere in dono.

E noi, persone come loro, abbiamo imparato altro sul pane.

IL PANE NON SI BUTTA. MAI.

Nonna, con attenzione, raccoglieva i pezzi di pane alla fine di un pranzo. Il pane era il protagonista assoluto delle prime esperienze di economia domestica. Il riuso in famiglia partiva da lì.

Ogni fetta, intonsa, sarebbe stata usata nel prossimo pasto, indurita, alla lunga, sarebbe diventata la fresella da bagnare e condire con olio e pomodoro, già spezzata, sarebbe stata tostata per trasformarla in pan grattato.  Ricordo papà mio che portava le “buste per il pane che avanza” alle scampagnate. Girava con attenzione, la busta fra le mani a raccogliere tutti i pezzi che non avevano meritato altro destino, nemmeno quello dell’ultima buschetta che faticosamente si bruciacchiava sulla brace fioca che resisteva sotto la cenere.

Se proprio non c’era modo di conservare qualche pezzo avanzato, si baciava con tenerezza prima di buttarlo.

UN BACIO AD UN PEZZO DI PANE.

Questo è ciò che si ribella subito di fronte allo scatto e ne fa un sacrilegio. Una offesa alle memorie del vissuto che ci ha fatto Uomini. Con tutte le aggravanti del caso. Perché quel pane era anche un gesto di aiuto.

Ti chiedi senza nessun moralismo, solo con un senso di stupore, come sia possibile, quanto sia avanti verso il baratro della bestialità la reazione degli uomini. Ma quanto ci vorrà per ricostruire un senso di Comunità coesa, fiera, orgogliosa, ma non sprezzante, violenta, arrogante?

Quel senso sano di Comunità che rende possibile il confronto pacato, l’ospitalità naturale, la condivisione ragionata. Te lo chiedi stupita, sconfortata, avvilita.

Inaspettatamente, la forza della luce nelle tenebre si fa spazio.

Un video di 4 minuti squarcia la violenza. Simone, adolescente certo della sua identità, tiene testa all’arroganza di una capoccia pelata che alimenta la reazione inconsulta. Simone parla poco e dice tutto. Si confronta senza paura, diritto, non si sposta di un millimetro.

“IO SÒ DI TORRE MAURA” E GIUDICO, NON REAGISCO. GIUDICO.

Sposta indietro la contestazione dal limite della bestialità. Riporta con semplicità il confronto sulla verità del disagio della sua Comunità. Non guarda l’etnia delle persone rifiutate, ma guarda la gravità delle condizioni di vita del suo quartiere. Invece di calpestare il pane, pensiamo a come calpestano la nostra sicurezza. Semplice e vero. Potente.

Lui ci salva con poche parole. E speriamo di essere come lui. Capaci di giudicare senza la rabbia delle bestie e tornare a baciare un pezzo di pane.

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