Kalidou Koulibaly: il totem perfetto dell’Italia razzista

by Amerigo Ciervo
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L’Italia è quasi pronta per sperimentare una nuova forma di potere che, già in ottima salute in alcuni paesi dell’ex-Patto di Varsavia, dalle nostre parti, con un non felicissimo neologismo, viene chiamata “democratura”.

L’iter della più importante legge dello stato, che gli illustri deputati e le gentili senatrici della Repubblica hanno dovuto approvare a scatola chiusa, rappresenta davvero un inquietante paradigma, che rivela al colto e all’inclita quanto oggi valga  il potere legislativo. Quasi zero.

Allora sarà proprio vero, come pensano alcuni, che gli istituti della cosiddetta democrazia rappresentativa non sarebbero più compatibili con la furibonda fenomenologia della competizione globale e con la tragedia infinita delle guerre e delle migrazioni?

E che chi a questo si opponesse cercando, in Italia, di mantenersi fedele alla Costituzione nata dalla Resistenza al nazifascismo, verrebbe considerato un vecchio conservatore o un sognatore nostalgico?

Il mercato è il mondo. E questo mondo non ammette, non può ammettere, che altre leggi ne possano bloccare le dinamiche. La politica si è fatta umile ancella dei mercati e dei loro conflitti sicché le costituzioni democratiche sembrerebbero non aver più niente in comune con tale innovativa concezione.

Non saremmo onesti se però affermassimo che tale processo sia cominciato con il governo in carica. Un ”esecutivo” precedente aveva addirittura tentato di modificare, con un voto di fiducia, la Costituzione. E proprio per tale ragione, dai cosiddetti sostenitori del “governo del cambiamento”, ci saremmo aspettati un’inversione di marcia, dopo anni di prediche imperniate su parlamento trasparente, streaming, rispetto delle istituzioni, scatolette da aprire e altre, a questo punto, menzogne a costo zero.

In realtà non c’è stata nessuna inversione.

Anzi, pare che le pratiche verso un generale ridimensionamento delle prerogative democratiche stia subendo una fortissima, oggettiva accelerazione. “Signore, mai peggio”, avrebbero pregato le nostre nonne.

In realtà, a preoccupare è la più generale situazione culturale del paese.

Approfondendo lo sguardo è possibile scoprire taluni dettagli che svelano un pezzo di verità.

Penso, per esempio, all’approfondito (?) dibattito apertosi sui giornali e sui social, qualche settimana fa, su Inter-Napoli.

Non mi riferirò alla partita, né ai suoi aspetti tecnici su cui non esprimerei giudizi, non essendo un competente.

Il calcio, quando è giocato secondo le regole e senza nessun tipo di taroccamento è bello e drammatico. Proprio come la vita.

Sarebbe necessario, viceversa, ritornare a parlare, a mente fredda, del contesto nel quale la gara si è giocata. Del clima che vi si è respirato.

Siamo a Milano, il capoluogo della regione più ricca del paese. La capitale economica e, come dicono molti – che, evidentemente ignari del significato dell’aggettivo, parlano a schiòvere –  “morale” d’Italia.

Nonostante i trucchi e gli sforzi di SKY, le cui finalità primarie sono da sempre quelle di offrire un’immagine bella, riposante e consolante del prodotto che stanno vendendo (e di non disturbare i padroni o i padrini del vapore), si capisce benissimo cosa si gridi dagli spalti verso la squadra ospite e contro il suo giocatore più bravo.

Già questo sarebbe sufficiente per capire in che paese fingiamo di vivere.

E di che panni vesta la sua capitale “morale”. Che è pur sempre stata la città di Ambrogio e di Beccaria. E di Manzoni e di Turati.

Oggi, però, essa sembra essere diventata la città di Salvini, non certo noto per aver commentato i Grundrisse di Marx, o i Sentieri erranti nella selva di Heidegger, quanto piuttosto per l’esibizione nel celeberrimo coretto in cui, con versi arditi e avanguardistici, individua una sorta di sinestesia tra cani e napoletani.

Come sia finita la partita, lo sanno tutti.

Il dibattito – sui social e su giornali importanti – interessantissimo non tanto per le idee espresse, molte sbagliate, alcune davvero pessime, a seconda del punto di vista –  ha riguardato nell’ordine:

  1. a) l’applauso di Koulibaly “giustamente punito”, per aver osato ironizzare nei confronti dell’arbitro (che, come si sa, in Italia, è una sorta di “oltre-uomo” nietzschiano, o, se si preferisce, un monstrum ieratico che sta a mezzo tra la terra e il cielo).
  2. b) la consueta operazione ragioneristica sul numero “limitato” delle persone che hanno intonato slogan e i simpatici “buu” (che, per il mantra dei commentatori, “non sono tifosi”. Viene da chiedersi: E che saranno mai? dei pellegrini che, in viaggio per Santiago de Compostela, avranno scambiato san Siro per un tempio dove sono entrati per partecipare alla funzione religiosa che vi si stava celebrando, attirati dagli inni ascoltati? Dei coristi della Scala intenti a scaldarsi la voce per una replica dell’Attila verdiano? O, forse, più prosaicamente, nazifascisti in servizio permanente effettivo?).
  3. c) di chi fosse la responsabilità di fermare la partita: dell’arbitro? della procura federale? del questore? del prefetto? del ministro dell’Interno?

Personalmente, a tali questioni, non ho risposte da dare.

Credo fermamente, però, che, pur trovandone molte, di risposte, e ognuna, a seconda della propria ideologia, adeguata, ai più sfugga l’aspetto principale della contraddizione che risiede nella domandona finale su cosa spinga migliaia di persone, il giorno dopo Natale a comportarsi in tal modo.

La rabbia sociale? Ma se ci si può permettere un biglietto per una partita quale rabbia sociale si dovrebbe mai manifestare? La disoccupazione? Ma siamo nella ricca e produttiva Milano, mica tra i “parassiti” della Terronia, dove, come pensano in molti quello che fu esplicitamente affermato da un delegato al congresso dei giovani padani del 2013, presentato dallo stesso Salvini, “i giovani non fanno un emerito ca**o dalla mattina alla sera”. E dove, giusto per ribadire il concetto, ”ci sono bellissimi paesaggi, ma il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l’hanno proprio dentro il culto di non fare un ca**o dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera.”

La risposta è molto più semplice e banale.

Certi comportamenti affondano le loro radici nel razzismo che – da moltissimo tempo –  risiede nelle viscere, nella pancia, nel cuore e nella testa di gran parte dell’Italia. Per moltissimo tempo i sopracciò che scrivono, sui giornali e in rete, sulle vicende calcistiche e su quelle politiche, hanno continuato a minimizzare, in termini quantitativi e qualitativi, ciò che, invece, sta stravolgendo quel poco di coscienza civile che rimane a questo paese.

Il calcio rappresenta la surroga del bisogno di sacralità che non si ritrova più nelle antiche pratiche accantonate e, quindi, diventa lo spazio dove è possibile esporre, manifestare, en plein air, le proprie visioni del mondo. Che sono inequivocabilmente razziste.

Quello che è accaduto a Milano il giorno di santo Stefano è stato un grande rito religioso.

Gli atleti neri (delle squadre avversarie, s’intende, i propri li si sopporta) diventano i totem che rappresentano i migranti. Da questo punto di vista, Kalidou Koulibaly è un totem perfetto. Un atleta magnifico. Nel suo ruolo è tra i primi al mondo. Parla quattro lingue. Coltiva buone letture e lo si comprende ascoltandone le interviste e, ancora di più, informandosi su certe scelte fuori del campo. Egli poi gioca nella squadra per la quale tifano tutti quei diavoli che abusivamente abitano – seconda l’aurea analisi del giovane leghista -, il paradiso partenopeo.

All’interno delle mille contraddizioni (i mille culure e la carta sporca di Pino Daniele), Napoli conserva sempre il suo fascino ambiguo  di città-mondo. Sarà un caso che, negli ultimi due prodotti artistici italiani venduti all’estero, Gomorra e L’amica geniale, al di là dei contenuti, sia Napoli il teatro delle storie e gli attori  parlino una strettissima lingua napoletana?

C’è una soluzione possibile a tutto questo?

L’unica via d’uscita, programmi politici a parte, resterebbe sempre quella che un tempo si chiamò “egemonia culturale”. “Studiate perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” è l’esortazione gramsciana. La riflessione e lo studio sono l’unica carta che noi abbiamo in mano per vincere questa battaglia. Solo così potremo ritornare ad essere padroni del nostro destino.

Ben consci che il raggiungimento dell’indipendenza di pensiero è il frutto di un lavoro complesso e difficile. Un lavoro che ci toglie molto tempo. Mentre appare molto più semplice il delegare ad altri il nostro destino. E, onestamente, non sono pochi a non scorgere una sola ragione utile del perché ci si dovrebbe sacrificare mentre i nostri autorevoli e onorevoli rappresentanti votano tutto, velocemente, a scatola chiusa.

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