La politica della préfica

C’era una volta il lamento funebre. Ovvero il rituale che veniva eseguito davanti alla salma secondo la ritualizzazione formalizzata all’interno delle molteplici tradizioni culturali.

Il pianto antico, cioè la lamentazione mediterranea e precristiana sui morti, è il tema centrale a cui Ernesto de Martino dedica un’opera importantissima (Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri), nella quale l’antropologo napoletano tenta di verificare l’efficacia di certi suoi schemi interpretativi già, peraltro, individuati in precedenti opere.

In sintesi: l’uomo vive perennemente in bilico tra l’affermazione della propria presenza nel mondo e la consapevolezza che il mondo nel quale è costretto a vivere rappresenti, per lui, un costante pericolo di annullamento e di dissoluzione.

Sicché la morte di una persona cara provoca la crisi.

La morte si rivela, per noi, come uno scandalo irreversibile, una crisi senza orizzonte e ci conduce verso la estraniazione dal mondo, verso lo smarrimento, sull’orlo di un furore, non eroico, ma  distruttivo.

E’, quindi, proprio la coscienza della perdita a spingere l’uomo a mettere in campo tutte le forme rituali possibili per   controllare le  proprie frustrazioni. Una di esse è, appunto, il pianto collettivo, che serve a tutelare e a conservare la propria esistenza precaria.

Il lamento può tendere l’intero arco della disperazione.

Ma è l’uomo a tenderlo, l’arco.

E’ l’uomo a controllarne gli effetti con le tecniche che, nella varietà delle culture, sono state formalizzate e che, per questo,  rispondono alla necessità di restituirci alla vita, trasformando, nel contempo, il morto in uno “spirito” che dovrà proteggere la comunità.

L’intuizione demartiniana mi è più volte ritornata in mente riflettendo sulla situazione della sinistra in Italia.

Anzi, dirò di più. Essa mi pare la fotografia perfetta del processo che sta attraversando il mondo di milioni di militanti. E, a ben pensarci, non solo in Italia. Il 4 marzo scorso la sinistra ha subito la più dura sconfitta della sua storia, anche più grave di quella del 18 aprile di settant’anni fa.

Allora si scontrarono due poli non solo nazionali, due visioni opposte, antagoniste, in un tripudio di ritrovata speranza nella vita democratica, in  un conflitto aspro e forte tra due mondi alternativi.

Il 4 marzo ha, invece, segnato, prima ancora di una sconfitta politica, una débacle culturale.

Dovremmo sforzarci di guardare bene dentro le cose.

Per la parola “comprendere”, il latino usa il verbo  intelligere, intus legere, ossia “leggere dentro” le cose. Mi sembra necessario lo sforzo di leggere in profondità per comprendere che cosa stia  accadendo nel mondo che ci circonda. Ma, ancor di più, cosa va accadendo nel nostro mondo.

Anche se pare che, di questi tempi, tale pratica non sia né seguita né granché apprezzata. Anzi, per molti sembra che nulla sia successo.

E il lamento continua anche dopo il trigesimo.

Oggi siamo muti testimoni di azioni malvagie. Le esperienze della vita ci stanno rendendo, giorno dopo giorno, sempre più diffidenti e indifferenti. Sovente siamo in debito, con gli altri,  di parole di verità e di libertà.

Conflitti complicati ci hanno fatto diventare addirittura cinici. Sapremo ritrovare la via della chiarezza e della giustizia? Nel frattempo dobbiamo fare i conti, giorno dopo giorno, con l’incultura di chi esprime le sue idee con un po’ di frasi fatte, col non mantenere la parola data, col mutare, in quattro e quattr’otto,  idea senza neppure avvertire la necessità o il bisogno di uno straccio di giustifica, con il sostituire l’argomentazione logico-razionale con la violenza, con il ricorso alle piazze come arma di ricatto nei confronti delle istituzioni.

Le profonde trasformazioni del mondo, che molti s’illudono di racchiudere nel puro fenomeno, di certo incandescente, dell’esodo ininterrotto di uomini e donne che fuggono dalle guerre, dalla fame, dal sottosviluppo, dalle mutazioni climatiche, dimenticandosi o, peggio, rimuovendo, la questione demografica, e la desertificazione di tante zone interne, o, ancora, la radicale trasformazione del lavoro che muterà le condizioni di milioni di donne e uomini da qui a qualche anno, ci spingono verso domande sempre più pressanti e urgenti.

Ora le seducenti narrazioni dei governi, dei ministri economici, dei tanti economisti, cantori indefessi e in servizio permanente effettivo delle scelte degli ultimi decenni che hanno avuto come risultato, numeri alla mano, un impoverimento generalizzato e indifferenziato.

I numeri tengono la capa tosta.

Se negli anni in cui la sinistra ha governato i poveri sono passati da due milioni e mezzo a cinque, significa che non s’è governato bene. E non si può dire nemmeno che chi non ha votato per la sinistra non ha capito.

In realtà le persone hanno capito benissimo e non hanno votato. Senza eccezione alcuna. Nessuno potrebbe dire, per esempio: hanno perso i vecchi ma c’hanno guadagnato i giovani. Nulla.

Deserto, macerie e arretramento sul campo dei diritti. A voler parafrasare la celebre distinzione pasoliniana: “sviluppo” pari a zero e la metamorfosi di un  “progresso” che diventa un oggettivo arretramento.

Che le narrazioni ideologiche – o, come oggi si dice con più sciccheria, le storytelling, di chi viene profumatamente pagato, proprio per creare favole ben imbastite, magnifichino scenari  funzionali allo strapotere del capitale, è pratica vecchia quanto il cucco.

Da sempre, come sostiene un filosofo, ahimè,  troppo presto derubricato a vecchio arnese, anche da chi farebbe bene a rileggerlo e a ristudiarlo con rinnovato vigore, le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti.

E tuttavia, per coerenza, occorrerà mettere in evidenza come talvolta capiti che pure chi sostenga  buone idee, a queste alterni pratiche politiche e scelte di schieramento quanto meno discutibili o contraddittorie.

Ci sono molte responsabilità di dirigenti e di forze politiche della sinistra italiana nelle scelte di quelle  politiche economiche che hanno determinato lo scenario descritto.

E’ davvero raro trovare, nella storia dei partiti,  gruppi dirigenti capaci di recidere, in pochissimi anni, le radici stesse della propria organizzazione senza trovare il benché minimo ostacolo: spezzati i legami con il mondo del lavoro (Jobs Act, cancellazione dell’articolo 18, la precarizzazione come unico orizzonte possibile); spezzati i rapporti con il variegato e complicato  mondo della scuola – uno dei pilastri di una visione del mondo pluralistica e democratica, alla luce della Costituzione  – con la trovata della buona scuola e la decisione ridicola delle duecento ore dell’alternanza scuola-lavoro;  offesa la sensibilità ecologica e ambientale, invitando  a disertare il referendum sulle trivellazioni; manomessa la Costituzione a voti di fiducia; incrinati i rapporti con quelle che una volta si chiamavano le organizzazioni di massa.

Che fare, dunque? Atteso che abbiamo una carta fondamentale da cui occorre ripartire, la Costituzione, l’unica strada da seguire è  resettare tutto, rimettendoci a studiare seriamente i territori, analizzandone le prospettive e le potenzialità, acquisendo nuove pratiche politiche fatte di rigore, di umiltà e di pazienza.

Non è possibile individuare una nuova linea politica senza conoscenze e le conoscenze non si ritrovano sotto gli alberi ma sono il prodotto di studi svolti lungamente e accuratamente, di certo non nel segno dello stigma dell’improvvisazione.

E, poiché non si mette vino nuovo in otri vecchi, una nuova linea politica richiede nuovi gruppi dirigenti. Mettere in relazione la contingenza – ossia lo sfaldamento democratico e  il nuovo fascismo che rinasce, come ci rammenta il susseguirsi di gravissime azioni, aumentate, per numero e intensità,  nelle ultime settimane   – con una nuova progettualità  – la costruzione della rappresentanza politica dei gruppi più poveri e subalterni della società  – significa ritrovare la spinta che è mancata, quella dell’utopia, che va, senza dubbio,  correlata con il realismo della pratica politica, ma che deve  ridiventare la centralità del nostro impegno.

Chi rappresenteremo? Che mondo vorremo costruire? In che misura l’inclusione dei più deboli, degli ultimi, dei sempre più numerosi prodotti della cosiddetta “cultura dello scarto”, per citare Francesco,  potrà ridiventare la ragione prima  del nostro impegno politico?

E’ in questo campo che si gioca la partita del nostro presente. Nel frattempo qualcuno dovrebbe comprendere che il tempo del lamento funebre è terminato.

E, proteggendoci, ormai, i nostri “morti” dall’alto, sarebbe opportuno e necessario ricominciare a vivere.

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