L’estate triste del popolo sovrano

“L’estate sta finendo e un anno se ne va”: basterà iniziare citando i celeberrimi  versi di una canzonetta di qualche anno fa,  per non apparire degli intellettuali spocchiosi e con la puzza al naso nei confronti dei gusti musicali  del “popolo”? Con questa parola, al tempo nostro,  si tende a indicare la massa indistinta di donne e uomini che la democrazia rappresentativa ha tradito e che, quindi, deve riappropriarsi del proprio destino politico.

Di certo, dunque, da non intendere in senso romantico.

Sembra, piuttosto, che “popolo”  abbia preso il posto,  nei messaggi politici  e nelle cronache giornalistiche, di “masse popolari”. Un’espressione che, per tantissimi,  pencolava  eccessivamente verso il campo che fu patrimonio della sinistra.

Eppure dobbiamo tentarci, forti anche del giudizio di Marcel Proust – e vai con la prima citazione, altrimenti che radical chic  saremmo  – che ci esorta a non disprezzare la cattiva musica:  “Essa si suona e si canta ben più e, ben più appassionatamente,  di quella buona”  e  va empiendosi  dei sogni, dei sospiri e dei pianti degli uomini.

Se poi pensiamo alla manomissione operata, sulla medesima canzonetta,  da una parte non irrilevante del succitato popolo, i tifosi delle squadre di calcio  –  in Italia, in primis, quelli del Napoli, per i quali “L’estate sta finendo” s’è trasformata in  “Un giorno all’improvviso, m’innamorai di te”, dove il “te” non corrisponde a nessuna persona ma alla squadra del cuore  – il cerchio si chiude.

Ma l’estate 2018 sta  finendo per davvero, portando con sé una lunga serie di fatti, di eventi e di parole su cui  vale la pena soffermarsi, per qualche attimo, a riflettere, cercando di serbarne,  nel cuore e nella mente, il senso.  Probabilmente, riusciremo ad affrontare con più coraggio e determinazione i  mesi che ci attendono.

1 – i morti del Foggiano. Sono i disperati che muoiono  sul lavoro. Lo sappiamo.  L’espressione “sul lavoro”  suona quasi come una beffa. I poveri cristi, giunti dall’Africa,  sono stati uccisi da un sistema che, al di là dell’apparente modernità, resta saldamente ancorato ai canoni del più bestiale sfruttamento, a cui lo straccio di stato che ci ritroviamo non riesce, in alcun modo, di porre fine. Ora non serve  dare vita a puntute analisi socio-economico-politiche. Certo, servono anche quelle. Ma qui può bastare la sintesi, contenuta in due endecasillabi di un metarano, l’antico canto contadino che accompagnava la mietitura del grano dalle nostre parti, registrato negli anni Settanta del secolo scorso. “Ninnillo mio è gghiuto (è andato) a mète (a mietere) in Puglia/la favece (falce) è tornata e isso none (e lui no)”. Cosa è cambiato da allora? Solo il colore della pelle di quelli che non tornano. Ma Paola Clemente, morta a quarantanove anni di stanchezza, tre anni fa,  ad Andria,  mentre lavorava all’acinellatura dell’uva, era italiana. Viveva,  insieme al marito e ai suoi tre figli, a San Giorgio Jonico, a trecento chilometri di distanza dal luogo che raggiungeva ogni giorno, partendo, con quei pullman gran turismo, alle due di notte. Come dire? Per padroni e  caporali, il problema dei migranti non si pone. E’ necessario solo tenere ferme le condizioni di sfruttamento del lavoro di chi ha la necessità di dover accettare qualsiasi condizione per provare a sopravvivere dentro il luccichio fasullo della post-modernità.

  1. – i morti di Genova. A scuola abbiamo appreso come il primo diritto che, con le istituzioni liberali, si intende tutelare, agli albori della modernità, sia quello alla vita. Quarantatre persone, questo diritto,  quattro secoli dopo, se lo sono visto violentemente e tragicamente calpestare, la vigilia di un giorno di festa. Il ponte è, da sempre, il simbolo di un qualcosa che lega insieme cose diverse. La carica di “pontefice”, nella Roma antica la più significativa dal punto di vista religioso e politico, aveva acquisito tale valenza mutuandola proprio dalla costruzione del ponte Sublicio, il primo ponte romano sul Tevere. Al di là di ogni altra riflessioni possibile, un ponte crollato  diventa un’inquietante immagine simbolica. Costruire ponti o erigere muri? Sembra che, archiviata  la fase del cordoglio, con i selfie ministeriali, i fischi e gli applausi connessi – ma tali epifenomeni, che hanno scandalizzato esclusivamente  per motivi di mero schieramento politico: in realtà essi sono davvero il prodotto meglio riuscito della radicale “eclissi del sacro” nel nostro mondo –  sia il secondo corno del dilemma a prendere il sopravvento. E i muri, via via sempre più alti, sembrano proprio quelli che si vanno erigendo,   tra gli attori del famigerato “contrato di governo”, in rapporto alle soluzioni da mettere in campo per superare le gravissime conseguenze del crollo del “Morandi”.
  2. – i “morti viventi ” della Diciotti. E qui siamo costretti a ritornare al ben noto passaggio del libro di Qoèlet: “Quel che è stato sarà, e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole.”

Il ministro dell’Interno del governo, che la maggioranza degli italiani sembra molto apprezzare, replicherà ancora le sceneggiate che producono consenso e voti  a costo zero.

Sui social  continuiamo, imperterriti, a produrre post di condanna che  servono  solo per metterci l’anima in pace. Perché nulla c’è da attendersi da questo inspiegabile e immotivato  irrazionalismo di massa che, di fatto, sta avvolgendo il corpo dell’intero  paese, come i serpenti avvolgono i corpi dei fedeli a Cocullo, durante la festa di san Domenico.

Sono i medesimi social a raccontarci tali, irrazionali scelte, finanche di persone,  uomini e donne, che pensavamo di conoscere bene. Hanno compiuto buoni studi, non hanno problemi economici.

In un passato prossimo  qualcuno non si è neppure peritato di utilizzare  le piacevoli furbizie dell’antica politica, e oggi te li ritrovi a fare i moralisti a tanto al chilo, appena convertiti sulla via della Damasco grillina o conquistati dalla “securitate” salviniana.

E nulla hanno potuto gli occhi spiritati e un po’ tristi delle donne e degli uomini eritrei che sono  balenati, per molti giorni, sugli schermi delle televisioni, in questo agosto un po’ così.

E se provi a dire loro che, magari, quelle persone discendono dalle  stesse spose bambine che, verso la fine degli anni Trenta del secolo scorso molti  italiani, a cominciare da Indro Montanelli, comprarono, come era solito ripetere il giornalista,   “per ragioni sanitarie”, ti guardano per un attimo,  stupefatti. Un istante dopo si riprendono e ti sparano in faccia la domanda retorica, sempre la stessa, che riporta il discorso sui binari consueti “dell’invasione” e del “lavoro che ci viene portato via.”

  1. – i vivi in stato comatoso. Sono gli uomini e le donne del campo della sinistra di questo paese. Il quattro di marzo la sinistra ha subito la più grande sconfitta nella storia repubblicana. Una sconfitta ancora più grave di quella del diciotto aprile del 1948. Perché la sconfitta sembra non dare alla luce, finora,  alternative utili,  credibili e praticabili. Allo stato, non è neppure iniziata l’opera di sbancamento del terreno. Le macerie sono ancora tutte lì e, con tutto lo sforzo possibile,  non si riesce a vedere, all’orizzonte, se e quando  comincerà l’operazione di rimozione.  Viceversa,  sarebbe il tempo  di rimescolare le carte, di superare schieramenti falliti e bolliti e, prima di ogni cosa, di rimettere insieme persone su  valori e idee. Ci si dovrebbe ricontattare e ritrovarsi,  senza perdere la volontà di poter ricominciare.

Post scriptum

Giuseppe Crocco, “Caramba”,  è  l’ultimo partigiano sannita vivente. Ogni tanto ci sentiamo al telefono e discutiamo della situazione politica. Si porta avanti,  con grande lucidità, i suoi novantaquattro anni e, se la giornata è bella, il 25 aprile è sempre con noi a ricordare e festeggiare il giorno più bello  della storia italiana del Novecento. “Caramba” ha partecipato alla liberazione di Genova, tra il 22 e il 25 aprile del 1945, e non è molto contento del fatto che, dopo settant’anni, per la prima volta, sullo scranno di sindaco della città medaglia d’ora al valor militare, segga un esponente della destra.

Crocco ha vissuto  l’unica fase della nostra storia che  ha visto, una volta tanto,   l’io trasformarsi  in noi.  Gli  italiani,  già intontiti  dalla roboante oratoria mussoliniana,   dovettero riscoprire il principio di realtà con la  “prosa” delle bombe alleate e con l’implosione del regime.

Disperatamente soli – anche il re  finì per defilarsi, correndo verso il Sud per mettersi sotto la protezione sicura  degli alleati – dovettero finalmente  conquistare l’essenza politica dell’agire, che è l’unica esperienza  in grado di   illuminare l’esistenza umana.  Ci si  salva insieme. Da soli, si precipita.  Ma per salvarsi insieme, occorre avvertire il dovere  di scelte etiche. Quando viene scritta la Costituzione, molti costituenti sono giovani ma, nonostante ciò o, forse, proprio per questo, compiono un miracolo.

Ma i protagonisti avevano frequentato ottime scuole e chi – tanti –  a scuola non era andato,  riuscì lo stesso a trovare nella vita la spinta verso una crescita etico-culturale.  Si dovettero compiere scelte di campo nette, uomini politici che sarebbero diventati famosi e donne e uomini sconosciuti. Come Giuseppe Crocco. Così si riuscì a  gestire i cambiamenti, a fissare prospettive nuove  e a far diventare l’Italia, pur tra mille contraddizioni,  uno dei paesi più importanti del mondo.

Se ripiomberemo – e i segnali pare ci siano tutti –  nell’atomismo individualizzato,  fino ad illuderci di  partecipare direttamente alla politica smanettando, da soli, su una tastiera  nel tinello di casa, la lezione di quelli che hanno scritto la costituzione sarà stata vana. E vani saranno stati anche i sacrifici compiuti da Giuseppe Crocco, detto “Caramba”.

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