Se Dalì l’avesse osservata coi suoi occhi l’avrebbe vista molle, molle come il “camembert” di quella notte. L’avrebbe vista fondersi e fluire come il Tempo; l’avrebbe vista scorrere e sentita respirare; l’avrebbe vista danzare al ritmo dell’Universo. Sono certa, Dalì ne avrebbe colto le infinite forme, con lo stupore e la meraviglia di uno sguardo nomade e ribelle.
È difficile cogliere in che misura sia stato il genio di Salvador Dalì ad andare a Matera e quanto invece non sia stata proprio Matera a cercare Salvador Dalì, per accogliere le opere del grande maestro nelle stanze più preziose della propria memoria, dando loro, alle opere e alle stanze, una vita nuova. E così, sotto la crosta rugosa del Tempo che abbiamo imparato a contare, di un tempo essiccato al sole come il frutto del fico, si cela una leccornia molle e surreale: si cela il palpito lieve dell’eterno, si sente alitare l’infinito.
In questo nuovo anno eccezionale, in questo 2019 in cui Matera Capitale si dà ancora una volta alla luce per dare nuova luce al mondo, fatelo iniziare da qui il vostro viaggio, da questa “persistenza degli opposti”, che non è solo il titolo della mostra dell’immenso artista spagnolo, destinata a dimorare a lungo nel complesso rupestre della Madonna delle Virtù e di San Nicola dei Greci (XII sec.), ma è anche il mistero di un’evoluzione millenaria, essenza stessa di una terra sospesa tra nuvole e radici.
“La persistenza degli opposti” è il sìnolo di una Matera che è materia affamata di forme e di una storia che ha saputo fare di ogni ferita una fessura, per lasciarsi attraversare e fecondare, come l’acqua, dalla luce. Di Matera è questa la sua bellezza senza fine, quella che tutti da secoli e per secoli continueremo ad ammirare. La bellezza autentica di una ferita che viene da lontano, da una crepa che serpeggia, da un rammendo che ha lasciato il segno.
Sin dai tempi più remoti del paleolitico, la presenza umana ha trovato tra queste rocce il suo rifugio ideale, lasciando in eredità a questi luoghi preziose tracce del suo passaggio.
Dal neolitico all’età del bronzo, il suo incavo è il racconto di un’Europa che ha vissuto nel segno della grande Dea, sviluppando una civiltà policentrica, agricola e pacifica.
È così che Matera, scavo su scavo, pietra su pietra, diviene il distillato delle sue più profonde cicatrici, che sono memoria e identità ma soprattutto sono coraggio, sono percorso, sono libertà. È proprio questa libertà, sopravvissuta alla ferita, ad accompagnare questa terra verso nuove ibridazioni, rendendola punto di equilibrio tra più lingue e più croci: quella latina, della vicina tradizione longobarda, e quella greco bizantina, giunta da quell’ “Oriente” in fuga che, nel ventre molle di una Matera Mater, scava le stanze in cui tornare a sorgere e popola di tanti e tali santi il sottosuolo che, per chiedere la grazia, non si volge più lo sguardo al cielo ma si china il capo, inginocchiati, nelle viscere profonde della terra.
Da queste parti, nell’anima più randagia del Sud, quello con il “sacro” delle origini è un rapporto clandestino, sotterraneo, intimo, e radicale, come sacro e radicale è pure l’amore per una terra all’apparenza aspra e dura, faticosa e inospitale.
Ma solo chi impara a perdersi nella vertigine della prima appartenenza, in quel “prenatale” cosmico e personale, entra in relazione con questo “immenso utero del cosmo”, così a lungo, fortunatamente, risparmiato allo Stato e alla “civiltà”!
È questo il momento in cui si coglie il vero senso dell’amore e dello scavo, dell’amore che non ti vìola ma ti svela, dello scavo che non ti svuota ma ti riempie; dello scavo che semina radici e costruisce identità. Perché non si può venire alla luce senza prima aver dimorato nelle profondità.
Ed è su queste profondità che Matera eleva i suoi campanili, perché non c’è misticismo autentico se l’ascesa non si sporca e non si misura con la discesa.
Sono queste le fondamenta di una città capitale di un Sud sempre estraneo e distante, di un Sud che si fa da sé e si costruisce in alternativa ai poteri dominanti, grazie ad un’anarchia del pensiero e dell’agire che lo isola e lo salva dall’omologazione totalitaria del potere.
Sono queste le radici di una città che avrebbe – e forse ha – spaventato il “popolo dei giganti” e che solo la laboriosità di un “popolo di formiche”, come diceva Tommaso Fiore per i suoi “cafoni” di Puglia, ha potuto costruire. Solo un popolo di formiche, umile e paziente, poteva scavare la più grande città ipogea del mondo, maneggiando con cura, quasi fosse oro o pietra preziosa, il materiale e l’immateriale che aveva tra le mani, cesellando ogni umile dimora, ogni chiesa, ogni eremo, ogni cenobio, ogni singolo e fragile anfratto umano.
Solo un popolo di formiche poteva rendere possibile l’impossibile, portando l’acqua dove prima era il deserto, per realizzare così la più colossale opera di raccolta e canalizzazione dell’acqua piovana dell’antichità, facendo di Matera la più grande cisterna d’Europa.
È questo ventre colmo d’acqua che, insieme al più grande complesso rupestre del mondo, consegna Matera al patrimonio dell’Umanità. Di quel popolo di formiche un nome su tutti, Pietro Laureano, che nel 1993 scrive il dossier per presentare Matera, all’Unesco e al mondo, attraverso i suoi tesori più preziosi, elevando cosi l’invisibile e l’essenziale ai loro stessi occhi!
Di Pietro Laureano è la mostra “Ars Excavandi”, che il 20 Gennaio ha aperto le esposizioni di Matera Capitale Europea 2019 e che sarà visitabile fino al prossimo 31 Luglio. Questa mostra internazionale, per la prima volta, spaziando dal Paleolitico alla contemporaneità, esplora e narra per tutti, a più livelli e con più linguaggi, l’arte e le pratiche di scavo che danno origine a paesaggi, architetture e civiltà ipogee nel corso dei secoli. Dal Museo Ridola agli Ipogei di Palazzo Lanfranchi e di Piazza Vittorio Veneto, “Ars Excavandi” si dipana come un filo tra la trama e l’ordito di una Matera underground, per rileggere l’arte ipogea da una prospettiva contemporanea, svelandoci dalle profondità di Matera i segreti di tutti i mondi sommersi del pianeta.
Può dunque il patrimonio rupestre diventare modello per la bioarchitettura e la città sostenibile del futuro? Può la vergogna diventare risorsa? Può la ferita tramutarsi in Bellezza? Può il dolore generare energia? Probabilmente la risposta è già insita nella domanda ma anche nei fatti straordinari di questi ultimi dieci anni, a cominciare dalla proposta di candidatura della città, maturata nel 2008 dall’amore folle di Francesco Salvatore che riesce a coinvolgere tutta la comunità in una grande sfida.
Sono questi fatti che confermano, ancora una volta, che “la pietra scartata dai costruttori continua a divenire testata d’angolo”. Ecco l’opera della Vita: una meraviglia ai nostri occhi!
Ha ragione, dunque, Vittorio Sgarbi quando, con l’impeto che da sempre lo caratterizza e con il quale pure ci insegna tante cose, dice che nonostante tutto vince la Matera che si oppone alla cultura dominante non quella che si lascia violentare dai poteri forti. E in questo suo essere l’espressione di un Sud che sa cadere e rialzarsi, esplodere ed implodere, vince, prima di ogni cosa, la voce di un Sud che non vuole confondersi, che non vuole essere incluso ma includere. Vince il Sud che sa accogliere e incontrare, come sempre ha fatto, nel rispetto della relazione, nella libertà.
Ha ragione Carlo Levi quando dalle rivoluzionarie pagine del “Cristo si è fermato a Eboli” grida a gran voce che è lo Stato l’ostacolo fondamentale. “Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato.” (…) “La civiltà contadina sarà sempre vinta ma non si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza per esplodere di tratto in tratto”. (Carlo Levi – “Cristo si è fermato a Eboli” – Einaudi – Torino – 1994 – pag. 220-221)
Abbiamo ragione tutti noi che abbiamo deciso di appartenere al “popolo di formiche” e che il 19 gennaio 2019, mentre le ombre del crepuscolo si posavano sul Sasso Barisano, abbiamo acceso nel buio degli uomini, uno ad uno, una piccola luce, brillando come stelle di un firmamento capovolto. Quella sera, siamo stati protagonisti assoluti di “Matera cielo stellato”, entrando in punta di piedi nel sogno di un sogno più grande. Eravamo nel sogno di Francesco Foschino che, insieme a “Scorribande Culturali”, ha organizzato l’evento più emozionante e più puro di questa inaugurazione a cui la vera comunità di Matera, di cittadini residenti e temporanei, ha partecipato con adesione sincera e profonda. Duemiladiciannove lumini distribuiti porta a porta per tornare ad accendere la notte – come raccontano tutti gli antichi viaggiatori – di fuochi e di speranza.
Non eravamo l’umanità migliore ma ciascuno aveva portato la parte migliore di sé per costruire una coralità mai vista prima. Eravamo un tempio sotto il cielo, creatori e creature di una ritualità perduta che ci riconciliava con l’eterno e di cui per sempre, nel cuore, conserveremo il segno. Il cielo ebbro di tanta bellezza, riuniti tutti i cori materani sul sagrato del duomo, intonava con loro canti di giubilo, per applaudire tutte quelle stelle.
Aleggiava su quella nostra umanità, raccolta nel silenzio e nel pudore, lo spirito di una “Grande Madre” che continua a fluidificare il ventre della terra, facendoci vibrare all’unisono nel mistero universale della creazione.