Per nove anni avevano tentato di farci credere questo, che si fosse morto da solo.
Discutendo con amici, con i colleghi avvocati, ho avvertito immediatamente il paradosso tra la realtà farlocca che volevano propinarci e quella vera.
Nel mio animo di giurista è ricomparsa l’eterna tensione tra mondo e accertamenti processuali.
Nove anni, in cui quella passività del verbo è risultata offensiva per la ragione.
“Stefano Cucchi? Spiacenti, si è morto da solo”. Ma come? Un corpo straziato, il segno dei colpi ricevuti sul viso e si sarebbe morto da solo?
Eppure dovevamo crederci.
Le poche mele marce non erano nemmeno mele.
Il silenzio, lo Stato che da tutore della persona si fa oppressore e vigliacco, erano tutti elementi di un congegno che doveva impedire di dubitare dell’evidenza.
E’ un principio odioso di qualsiasi abuso di autorità: la libertà è schiavitù, la guerra è pace, il bianco è nero e guai a chi osa dire che non è così.
Noi però non ci avevamo mai creduto.
Per noi non era morto e non si era morto.
Nemmeno per Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, il fratello si era morto.
Anche lei resisteva, spesso isolata, vessata, derisa dalle istituzioni e dalla politica, per dimostrare che a Stefano avevano fatto del male.
Nella vicenda di un cittadino che deve lottare contro la mostruosità dell’apparato, ciò che balza agli occhi è il peso di questa sproporzione di forze. Il logoramento psicologico, la frustrazione di ciò che gli occhi vedono, che la mente elabora, ma che viene definita pazzia, impressione, perversione. Sono solo favole, sciocchezze, panzane.
Si era morto da solo, ucciso da se stesso, auto soppresso.
Potremmo sprecare neologismi, perderci nella retorica della giustizia in cui avere fiducia, ma sarebbe solo un volo incerto, senza possibilità di atterrare.
Lo hanno morto, non è morto e di certo non si è morto.
Lo hanno morto e seppellito, prima fisicamente, abusando di un involucro ridotto a scheletro, poi nella memoria, degradandolo a “cosa” che meritasse una fine cruenta.
Un percorso di degenerazione intollerabile, puntellato dalle parole sprezzanti di sinistri figuri, attenti solo a considerare le forze dell’ordine come un perenne e granitico bacino elettorale.
Nove lunghi anni di depistaggi, complicità, sfide alla decenza.
In mezzo a tutto questo una sorella, che ha fatto di questa morte un elemento da cui trarre vita, linfa e combattività.
Volevano “morire” anche lei, cucirle addosso il marchio dell’approfittatrice, pretendevano che la lunga guerra combattuta in memoria di Stefano tornasse nell’oblio, sparisse, non desse scampo a chi ritiene che il coraggio mostrato in questa circostanza dia a quella donna il diritto a dire la sua, con pieno titolo, anzi con maggior titolo, nel dibattito civile e politico del nostro paese.
Noi italiani siamo così: a nessuno perdoniamo di sopravvivere alle proprie tragedie.
Guai a sorridere dopo un lutto, a non perire assieme ai congiunti, ad osare mostrarsi felici, anche solo per un istante.
In questo dramma di dolore e perdita, in cui anche le parole hanno tradito la loro forma, le confessioni postume di chi sapeva, di chi vide i pestaggi e le omissioni, hanno ridato ad Ilaria Cucchi la dignità che la bestiale crudeltà di troppi le voleva strappare via.
No, quel suo fratello, fragile ed incolpevole di tanta ferocia subita, non si è morto da solo, non è morto da solo e non è stato ucciso da un accidente casuale.
Stefano Cucchi è stato ucciso, ucciso da persone in carne ed ossa, in un omicidio di Stato che ancora grida giustizia e che di certo non ha mostrato alcuna pietà, né per Stefano, né per la sua travagliata famiglia.