Il caso Cucchi desta sempre grande emozione.
In primo luogo perché non è solo un caso.
E’ innanzitutto una storia, una di quelle che colpisce nelle viscere.
E’ la vicenda umana di un ragazzo che nelle mani dello Stato è morto, ma è anche l’emergere lento di una viscosità amministrativa, è il venire a galla di una sommersa catena di poteri che meglio si addicono a paesi non democratici.
Invece è tutto accaduto, qui, in un’Italia che vogliamo continuare a far finta di non vedere.
Ma non è neppure solo questo.
Dopo nove anni di insabbiamenti, di ammissioni a denti stretti, di un volto pestato a sangue sbattuto in faccia a chi voleva Stefano morto per fame e per sete, dopo il susseguirsi di affermazioni vergognose per chiunque, ancor più per rappresentanti dello Stato, in questa torbida vicenda emerge forte anche altro.
Il caso Cucchi ha generato un movimento di opinione, ha prodotto una mobilitazione delle coscienze che via via si è fatta dibattito e presenza pubblica portando la verità fattuale, piano piano, a verità di diritto e di giustizia. Questa verità è diventata un bellissimo e lacerante film, proiettato in comizi pubblici in tutta Italia, distribuito, eccezionalmente in via gratuita, da Netflix, uno dei leader mondiali della produzione televisiva.
Questa verità è diventata occasione d’incontro, di relazione, di contatto tra i cittadini che si sono riscoperti innanzitutto persone fragili di fronte alle violenze che promanano direttamente dalle regole. Diceva Jan Monnet, uno tra i grandi ispiratori, forse il più importante, della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, madre dell’odierna Europa, che “Niente è possibile senza gli uomini, e niente dura senza le istituzioni.”
E’ storia nota: il transeunte umano non può farsi collettivo imperituro, le istituzioni, invece sì, perché vi sopravvivono.
Ma fino a che punto le istituzioni possono difendere, impunite, la loro sopravvivenza?
Fino a che punto possono fare a meno delle persone, fagocitandole nel loro ingranaggio? Fino a che punto possono rivoltarsi loro contro?
Stefano Cucchi ci mostra un inquietante paradosso: le istituzioni e i poteri possono uccidere, ma le istituzioni, possono anche far emergere la verità.
Ilaria Cucchi ci ha mostrato, con tutta la dignità e la forza possibili, che le persone possono fare l’impossibile, possono mettere in crisi gli strumenti stessi di una Nazione, possono mettere a nudo il pervertimento dello Stato in uno strumento contro gli individui, l’identificazione dell’illegalità con l’impunità, la durevolezza delle istituzioni con il necessario riconoscimento del precario dell’umano.
In un secolo in cui la frammentazione individuale stenta a trovare, se non in pochi e simbolici casi, voci consonanti a difesa dei diritti umani, in un secolo spavaldamente dominato da oligopoli di classe e di potere, Ilaria Cucchi, ci mostra una nuova strada per rinsaldare un vincolo sociale, per ricostruire un più saldo patto di fiducia tra i cittadini.
Non è la comune origine statuale su cui potranno rinascere Istituzioni sane, ma il comune sentire che nelle Istituzioni ci deve essere una via di rinascita per la più fragile tra le persone.
Ce lo grida la morte stessa di Stefano Cucchi. Ce lo impone.
Non su di un cittadino modello, non su di un martire, ma su di un ragazzo sacrificabile sull’altare della differenza tra il “per bene ed il per male” dobbiamo rivedere il modello penitenziario, il rapporto con la pena, l’accordo con l’istituzione carceraria, la custodia nelle mani dello Stato.
Stefano ci obbliga a ripensare le istituzioni non in un’ottica di condanna, ma di protezione proprio di coloro i quali potremmo far meno; lo Stato di diritto e i suoi strumenti di esecuzione debbono essere pensati a misura di tutti gli Stefano che oggi non hanno avuto la forza di arrivare dove è arrivata la sorella e per gli Stefano che, ci si augura, non arriveranno mai.
Non dobbiamo e non possiamo più permetterci il sacrificio di Abele, ne va del nostro viver civile, ne va del significato della morte di Stefano.
Questo altro delitto, non potremmo scaricarlo impunemente sulle spalle della famiglia Cucchi.
Non una volta ancora.