Sono passati quasi 20 anni da quando Zygmunt Bauman scriveva “Paura liquida” osservando come “La paura più temibile sia la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari…paura è il nome che diamo alla nostra incertezza, alla nostra ignoranza della minaccia…”.
E, invece, in sole 48 ore, con le sale di rianimazione al collasso, le scuole e i tribunali chiusi, la realtà fattuale si è incaricata di smentirla prof. Bauman, immergendoci fino al collo, in uno di quei “mega rischi” che Ulrich Beck aveva preconizzato già negli anni 80, che hanno ben poco di “liquido”, che originano nella dimensione globale e che, poi, con una sorta di “effetto butterfly”, vengono scaricati su quella locale, nelle nostre città, nelle nostre strade, nei nostri uffici, nelle nostre case, nelle nostre vite.
I cittadini di Codogno ricoverati in ospedale, del resto, nulla sanno dell’esistenza della città di Whuan e, probabilmente, neanche dove sia esattamente la Cina e se davvero lì mangino pipistrelli e topi vivi, come pure ha detto, irresponsabilmente, qualche presidente di regione.
Insomma, ci eravamo illusi che il progresso avrebbe portato un miglioramento della condizione umana e, invece, non solo ci troviamo a vivere in società sempre più ingiuste, elitarie, ghettizzanti, escludenti, feroci, funestate da guerre e conflitti sanguinosi…ma anche terribilmente insicure.
Certo, di tutto questo, avevamo già consapevolezza, pronti a commuoverci la sera davanti alla tv, di fronte alle scene strazianti di morti in mare, profughi, campi di detenzione e malati di “Ebola”.
La differenza adesso, però, è un’altra: questa volta gli ospedali da campo, non sono montati nel deserto del Darfur, ma nelle nostre città moderne e sviluppate, a casa nostra.
E, come se non bastasse, la Scienza ci informa che non ha soluzioni al riguardo, non ha farmaci, né vaccini… invitandoci ad adottare misure di contenimento sanitario in voga nel Medioevo.
La pratica della quarantena, infatti, oggi raccomandata, se non imposta dalle autorità, deriva etimologicamente dalla parola veneta “quarantina” e prende origine dall’isolamento di 40 giorni al quale navi e persone venivano sottoposte prima di entrare nella laguna della Repubblica di Venezia, quale misura di prevenzione contro la peste nera che imperversava tra 1347 e il 1359 e che sterminò circa il 30% della popolazione dell’Europa e dell’Asia.
Ebbene, oggi, nel XXI secolo l’unica misura di cui disponiamo per combattere la pandemia da Coronavirus “Covid 19” è ancora quella.
Non abbiamo altro che la “quarantina”.
Questo dato di realtà, questa drammatica consapevolezza della nostra disvelata ed opprimente impotenza, rappresenta un trauma assai profondo, radicato, strutturale, dal quale non ci riprenderemo così in fretta.
Certo, l’epidemia prima o poi finirà e di questo siamo consapevoli.
Quello che non sappiamo, riguarda il numero dei morti e, ancora, se tra questi ci saremo noi, i nostri cari, amici, colleghi o conoscenti: ma questo, ovviamente, nella macrodinamica della vita sulla terra rappresenta un mero dettaglio insignificante, di nessun valore.
L’aspetto più grave e allo stesso tempo subdolo, di questa malattia è che essa s’impadronirà come un virus del nostro futuro, così come solo i veri eventi traumatici sanno fare.
Quello che la pandemia influenzale ha scalfito e infettato nel profondo attiene, infatti, al senso d’invincibilità dell’Occidente, a quel profondo e sottaciuto convincimento secondo il quale, con la tecnologia e con la scienza, poi alla fine ce la saremmo cavata sempre e comunque.
E, così, poco importa se i ghiacciai si sciolgono, se la foresta amazzonica va in fumo, se l’inquinamento intasa i nostri polmoni.
Abbiamo sempre pensato, almeno fino ad oggi, che alla fine la “Scienza” avrebbe trovato una soluzione, pronta, veloce e a buon mercato.
La sensazione, pertanto, è che gli ospedali da campo e le quarantene più che minacciare la salute delle persone abbiano scardinato nel profondo, in sole 48 ore, questa falsa ed inconsapevole titanica ebbrezza.
Eppure, che la modernità ci avesse ingannati quanto alla sua sostanzialmente impotenza di fronte agli eventi della vita, lo aveva intuito già alla fine degli anni 70, Jean Francois Lyotard smascherandone le false promesse, le lusinghe e le menzogne.
Il filosofo francese delineava la condizione delle nostre società evolute come “postmoderna”: per descrivere un’epoca segnata dalla crisi profonda e dall’ineluttabile smascheramento dell’inganno della modernità, con le sue “grandi narrazioni” di matrice illuminista, che ci avevano promesso un Eldorado fatto di razionalità, di giudizio, di sviluppo economico e di ricchezza, governato dall’onnipotenza della Scienza e della Tecnica.
Rispetto a queste grandi ed illusorie promesse, capaci di dare senso e legittimità alla nostra esistenza, il «postmoderno» segna, così, secondo Lyotard un momento di crisi irreversibile, fatto di disincanto, incredulità, frustrazione, angoscia.
E, così, dopo mezzo secolo, un microscopico virus, un acido nucleico, un filamento di dna, che non assurge neanche alla dignità di batterio, di organismo, di cellula e che rappresenta qualcosa di infinitesimale, approssimato al nulla, si è brutalmente incaricato di ricordarcelo.
Ma state tranquilli: alla fine, poi, tutto andrà bene…