Da autore a personaggio

Era il 2006. Rapita dallo stupore di pagine intrise di violenza descritta nei dettagli delle pieghe di una assurda normalità, divorai un libro. Gomorra.

Per la prima volta leggevo di campi non coltivati più preziosi ed allettanti dei terreni zappati, dissodati, seminati. Quei terreni che i nostri nonni nutrivano con gli occhi. Guardavano con orgoglio i germogli teneri che spuntavano a punzecchiare di colore una terra viva. Una terra feconda.

Ed invece in quelle pagine la terra più ambita e ricercata era la terra di morte. Quella terra usata come una coperta rassicurante sopra il veleno dei rifiuti estromessi dal ciclo regolare di trattamento. TERRA DI MORTE E DI SOLDI.

Per la prima volta leggevo di navi caricate di merci senza nome, ma di sicuro mittente cinese, destinate ad inondare i mercati clandestini. Per la prima volta leggevo dei laboratori frenetici e disumani del pronto moda impregnate dell’umido dei sottoscala e del sudore delle persone senza diritti.

E, poi, la violenza dell’arma simbolo, il kalashnikov, il potere furioso del cemento, il sangue della guerra di camorra. Pagine che mi rapirono nell’esplorazione di un mondo che prendeva forme concrete, si animava mostruoso, emergeva prepotente da una parola: camorra.

Roberto Saviano aveva avuto il grande merito di strappare una parola nota e colpire nello stomaco con i pugni della realtà che erano dentro quella parola. Un vero libro-denuncia, si può dire.

SONO PASSATI 13 ANNI.

Ed io, confesso, sono ancora rapita dallo strascico pulsante di quel libro: Gomorra, la serie. Si è appena chiusa la serie 4. I titoli di coda, cupi e bui come è stata cupa e buia ogni puntata, ricordano: “Da un’idea di Roberto Saviano”.

13 anni nei quali Saviano, una sorta di Celentano in uno dei suoi più riusciti travestimenti da santone, ha inondato i telegiornali, le inchieste, gli approfondimenti su… tutto.

Saviano è passato dalla denuncia alla pronuncia. Da autore a personaggio.

Un personaggio che si è imbevuto nel tempo di una impostazione saccente, capace di avere il giudizio corretto su uomini, tendenze, politica, ambiente, morale. Su tutto ha un giudizio, e questo non è un male, ma si lascia presentare sempre come il punto di riferimento indiscutibile. Facilmente, si potrebbe accollare unicamente al presentatore di turno la responsabilità della posizione da santone.

Ma Saviano, il pronunciatore, cavalca con il massimo confort il ruolo. Non si sottrae, non mostra prudenza mai, anche se discetta non di camorra ma di ambiente, non di violenza ma di costume, non di indagini ma di energia. Si, di energia.

Travalicando il mio sguardo su Saviano il pronunciatore, uno sguardo del tutto opinabile e soggettivo, restano obiettivamente 13 anni di storia di successo delle “idee di Roberto Saviano”. Film, serie televisive, nuovi libri.

BUSINESS, RICCO E PROFUMATO BUSINESS.

Si potrebbe dire: è bravo, se lo merita. Ed infatti, sono la prima ad ammettere l’attaccamento, quasi patologico, alle serie Gomorra. Storie scritte bene, recitate meglio, avvincenti.

Buon!’ direbbe Gennaro Savastano a labbra strette dentro la faccia morbida e cattiva che si ritrova.

Ma il punto che stride sta proprio nell’ostinazione continuativa delle proposte sullo stesso tema. Un tema vero, certamente, ma rimescolato con sagaci finiture che fanno spettacolo e diluiscono la denuncia, la polverizzano, la rendono inconsistente come una nebbia sottile. La denuncia resta su uno sfondo dimenticato, emerge solo agli occhi di uno spettatore disponibile a lasciarle ancora uno spazio.

Resta solo il magnifico, attraente, seducente spettacolo della violenza, del cupo di Secondigliano, della ferocia dei legami di sangue dei fratelli di camorra.

13 anni di proposte articolate con arte sui dettagli delle storie di camorra provocano altre considerazioni.

Il tema, la camorra e la delinquenza organizzata, scelto per il business pluriennale da Saviano il pronunciatore, non è solo “un tema”.

È la vita di persone che ogni giorno fanno della realtà l’affermazione del male, del dolore, della volenza. È la vita di ragazzi che crescono in bande insanguinate, avvelenati dal profumo tossico dei soldi dello spaccio, orgogliosi dell’appartenenza a falsi codici di onore. E non è difficile da vedere la portata devastante della rappresentazione scenografica della propria vita. Ti senti protagonista di qualcosa di più grande, sei il primo attore di gesti che meritano il successo.

SEI CELEBRATO.

Fatalmente, la soddisfazione della propria celebrazione porta con sé un senso di gloria, di grandezza, di immortalità. Un elisir letale che alimenta ed esalta le proprie gesta, naturalmente senza alcun paradosso.

Umanamente comprensibile. Umanamente devastante.

Ma Saviano il pronunciatore, scherzosamente, chiede ai suoi seguaci su Twitter se fermare le dita o continuare a scrivere la serie 5. Vede solo il successo, non altro. Cosa gli importa dei messaggi dentro le serie? Sono solo deduzioni ideologiche di qualche nemico culturale da annientare facilmente con una delle pronunce da santone.

Il confine tra la denuncia e lo sfruttamento commerciale del tema che gronda ogni giorno di sangue fresco è sempre più scivoloso. Divarica il giudizio positivo sul valore artistico della proposta e porta inevitabilmente a guardare il business. In fondo lo ammette anche lui, Saviano, il pronunciatoe. Dice di essere arrivato così “lontano”, tanto inaspettatamente “lontano”.

Francamente, con la sofferenza di uno spettatore appassionato, la fermerei qui. Gennaro, Patrizia, Pietro, Ciro si potrebbero tutti mettere a riposo, collocati nel panorama dei personaggi di successo della storia cinematografica del Paese.

Un Paese chiamato ad agire per spezzare la tradizione di violenza trasversale tra le generazioni del male. Un Paese che non può solo godersi comodamente lo spettacolo buio del proprio dolore. Affinché di “immortale” rimanga solo Ciro.

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