SCIOLA… SAN SPERATE e TUTTO QUELLO CHE VERRÀ

Ma la pietra si preoccupa di dire la parola giusta

tutte le volte che sotto la carezza di Pinuccio Sciola

narra di sé, della sua storia millenaria

e ci dice che non esiste il Tempo

e non esistono i confini tra il materiale e l’immateriale?

Ho conosciuto Sciola per “Spazio Vitale”, un progetto artistico che avevo scritto nel 2012 per coinvolgere 30 giovani creativi provenienti da tutta Europa in una sfida che mi sembrava nuova e interessante, quella di immaginare e progettare la città del futuro, a misura della persona e della felicità. Sognavo una città capace di coltivare emozioni e desideri, speranze e progetti ma anche di contenere delusioni e disincanti, interruzioni, sconfitte, tradimenti.

Una città vera come una persona e per questo ricca di contraddizioni. Una città capace di narrarsi e di narrare. Una città capace di creare. Una città gioiosa, vitale, leggera, straripante di colore e di Bellezza e poi prossima, sempre più prossima, all’eternità. Avevo previsto tre laboratori da realizzare in tre regioni differenti, Puglia, Sardegna e Toscana, che di volta in volta diventavano, per una settimana, la Città dell’Espressione, la Città dell’Ascolto e la Città dell’Incontro. Avevo invitato artisti, filosofi, antropologi e umanisti di un calibro umano fuori dal comune ma non avrei mai immaginato che in quel firmamento di personalità eccellenti avrei trovato la stessa polare! Tutto quello che io sognavo per il mio paese, Sciola, nel suo, lo aveva fatto già. Per il suo paese, come laboratorio, Sciola scelse la “Città dell’Ascolto” ma il suo paese, da lungo tempo ormai, grazie a lui era già tutte e tre!

Figlio della Sardegna più arcaica ed essenziale, Pinuccio Sciola è forse l’artista sardo più conosciuto al mondo, di sicuro della Sardegna è il suo più grande scultore, il suo cantore, il suo demiurgo. Figlio, come tanti, del mondo contadino, di quel mondo ne sperimenta tutti i limiti, i più dolorosi ed estremi, ma dentro a quei limiti incontra anche la “poesia” che sarà il suo solo vero nutrimento.

Nato nel marzo del 1942 nella piccola realtà di San Sperate, un minuscolo borgo agricolo nella piana del Campidano, in provincia di Cagliari, Pinuccio Sciola ha saputo trasformare quella che ad un primo sguardo può apparire come una sventura nel privilegio di un’appartenenza e soprattutto nell’occasione, più unica che rara, di un “radicamento” consapevole che ha fatto di lui un artista e un artista della Vita, capace non solo di creare ma di fare della propria vita un’opera d’arte senza tempo.

Dei nostri incontri, di cui ho ormai smarrito l’ordine cronologico perché con lui il tempo smetteva di essere una “categoria”, ricordo il pudore nello sguardo e il rispetto nel suono puro della voce, espressione di un equilibrio finissimo, dove ogni nota di colore non era mai fuori registro. Ricordo il suo emozionarsi nel narrare come tutto era iniziato, in un giorno qualunque, tra gli anni ’50 e ‘60. Tutto era iniziato da quel volto di pietra che proprio a lui, per caso, la terra aveva restituito; tutto prese forma da quel volto dal segno così lieve e così simile, in quel sonno quieto, alle muse addormentate di Brancusi. Aveva percepito in quel ritrovamento il vero senso del dono, del dono cosmico, di cui aveva raccolto il segno dell’investitura.

Come i santi, con le stimmate, ricevono in dono il segno doloroso della Croce, gli artisti, come Sciola, ricevono il mistero gaudioso della Bellezza. Sia gli uni che gli altri raggiungono la vetta più alta. Ma se giungere all’incontro con Dio, attraverso la discesa nella croce di Cristo è un privilegio di pochi, è più semplice che Dio si serva della Bellezza per sedurre e intrappolare la parte naturale dell’anima, aprendo così quella soprannaturale “al soffio che viene dall’alto” come ci spiega Simone Weil nelle straordinarie pagine di Attesa di Dio.

Quella che Sciola aveva ricevuto era dunque la “percossa della Bellezza” che aveva elevato la sua anima alla regione “sopraceleste”.

Anche lui è stato per me una percossa e del suo incedere sicuro tra le pietre dell’esistenza, in modo particolare, non dimentico la gratitudine immensa, verso quella “terra”, la Sardegna e non solo, che gli fu madre in tanti sensi. Di gratitudine infinita trasudava la materia del suo essere, di devozione sincera alla “terra madre” verso la quale, forse, in quel suo inginocchiarsi gravido di pianto, si mal celava un bisogno pur legittimo di vero riconoscimento. Ricordo che in una notte piena di luna, a Roca Nuova, in quello “Spazio Vitale” che ci aveva fatto incontrare, parlammo di Maria Lai, artista sublime e creatura senza tempo, condividendo il privilegio di quel dono cosi prezioso, di quel femminile cosmico figlio della stessa madre.

Gli anni di quella sua particolare “investitura” sono anche gli anni della borsa di studio che gli permise di frequentare il liceo Artistico di Cagliari prima, il Magistero d’Arte di Firenze poi e nel 1965 l’Accademia Internazionale di Salisburgo, dove iniziò a seguire i corsi di Minguzzi, Kokoschka, Kirchner, Vedova e Marcuse, incontrando gli artisti più creativi del suo tempo e intercettando l’energia vibrante dell’arte proveniente da tutto il mondo e da più mondi.

La sua curiosità senza fine e la voglia di conoscere e confrontarsi con gli artisti di ogni paese lo portano a viaggiare continuamente e a incontrare personalità artistiche del calibro di Giacomo Manzù, Fritz Wotruba, Aligi Sassu e Henry Moore. Dopo l’esperienza in Spagna, all’Università della Moncloa, a Madrid, è la volta di Parigi nel pieno esplodere della rivolta studentesca, fino a che, tornato in Sardegna cerca di dare e di cogliere il senso di quel suo ritorno. Malgrado l’amore profondo per le sue radici, la sua chioma di giovane albero è folta ed è ricca di tanti rami nuovi, pieni di gemme. Gli amici di San Sperate sono quelli di sempre, le stesse persone con cui, prima degli studi d’arte, aveva zappato e arato la terra con sudore. Come poter coinvolgere la sua comunità, il mondo delle origini in quell’altro mondo che man mano andava scoprendo? Come poter condividere quell’eredità dal valore inestimabile con le persone con cui aveva condiviso l’infanzia della Vita? Sciola sentiva di non poter tenere tutto per sé.

Era convinto che lui, che aveva avuto accesso a quel mondo di incomparabile purezza, lui, come lo schiavo di Platone, doveva ritornare alla caverna e liberare i suoi compagni di viaggio, per elevarli ai loro stessi occhi, per accompagnarli al cospetto della Bellezza. Da un lato elevarli e dall’altro chiedere umilmente a ciascuno di loro di portare insieme “il peso” di quell’immensa eredità.

È cosi che nella primavera del 1968 San Sperate diventa un laboratorio sotto il cielo, la fucina di un’avventura artistica senza precedenti che ha segnato per sempre il suo destino. Sono quelli “gli anni della calce” perché di calce, Sciola e, all’inizio, pochi compaesani che gli danno retta, cominciano a ridipingere i muri di mattoni crudi delle case del paese. Non sapevano precisamente cosa fare e in che direzione andare, sapevano soltanto di dover “fare” e di dover “andare”. Il bianco dà inizio alla trasformazione e segna dunque il passaggio tra ciò che era e ciò che da quel momento in poi sarebbe stato. I muri di fango diventano tele bianche pronte a incontrare forme, colori, pensieri, storie; tele pronte a lasciarsi inseminare come la terra. Il 1973 è l’anno della svolta, non solo artistica ma soprattutto esistenziale. Sciola, grazie ad un riconoscimento dell’Unesco si reca a Città del Messico e lì sente il richiamo di una misteriosa intimità. Quel viaggio assume le fattezze di un “ritorno” a casa, in un Itaca interiore che scompagina il senso dell’andare e del tornare, alla ricerca di un verbo nuovo. In Messico lavora con il grande muralista David Alfaro Siqueiros e da quel momento in poi San Sperate diventerà un laboratorio permanente, aperto a tutti i muralisti del mondo. Il muro da “confine” e “limite” diventa lo spazio dove il pubblico e il privato imparano a dialogare e a entrare in relazione. I muri diventano le stanze della comunità, di una comunità che nella sua “distanza” è ormai pronta ad incontrare il mondo, ad accoglierlo dentro di sé.

Il nùgolo di pochi intimi pian piano si allarga, seduce, coinvolge, convince, fino a tenere insieme tutta una comunità, fino a diventare una coralità. Il decennio dal ’68 al ’78 è un fiume in piena, straripante di attività artistiche, fervore intellettuale, coscienza critica.

San Sperate è avanguardia su tutti i fronti.

È avanguardia sociale, artistica, politica, culturale.

San Sperate è l’avanguardia di una nuova umanità.

Nasce così il “Paese Museo”. Non un contenitore di espressioni archeologiche ma un cantiere di energie vitali, di menti visionarie, di possibili utopie. Da sempre, accanto alla magistrale direzione artistica del maestro Sciola l’associazione “Noarte Paese Museo”, varia nella composizione del suo splendido capitale umano e pronta a condividere con il maestro quella rivoluzione senza tempo e il respiro universale di progetti artistici e scambi culturali, che hanno fatto e continuano a fare di San Sperate un “centro” del mondo.

A 50 anni da questa esperienza fuori dall’immaginario ma che con l’immaginario ha un legame strettissimo, l’amministrazione comunale di San Sperate ha dichiarato l’intero 2018 “Anno del Paese Museo… paese della Creatività” e ha  realizzato una rete di partenariato formata dall’Associazione Culturale Noarte Paese Museo – individuata come responsabile scientifica del progetto -, l’Associazione della Terra Cruda, l’Istituto Comprensivo G. Deledda di San Sperate, la Scuola Civica di Musica, il Circolo Scientifico della Cultura Italiana (Koło Kultury Włoskiej) dell’Università di Varsavia, la Fondazione Sciola, le associazioni teatrali Antas e La Maschera, che hanno collaborato con le altre associazioni culturali del territorio, sotto la direzione artistica del muralista Angelo Pilloni, supportato dalla direzione scientifica di Paolo Lusci e di Noarte. Prossimo obiettivo del Paese Museo è la realizzazione dell’“EXE”, un Centro Internazionale di Scambi e Confronti Culturali, con uno spazio polifunzionale dedicato alla produzione culturale e all’ospitalità degli artisti.

In un 2018, in cui il nostro continente celebra l’Anno Europeo del Patrimonio Culturale,

 in questo minuscolo paese che ci invidia tutto il mondo, si sono avvicendate iniziative, eventi e attività culturali di respiro regionale ed internazionale, imbastendo una narrazione capace di spaziare dalle radici al futuro, dai “nuraghes ai murales”, per celebrare e raccontare una terra che, sotto strati e strati di mondi di passaggio, ha saputo conservare, con l’umiltà dei sapienti, il fango puro delle proprie origini.

È con questa stessa umiltà, ereditata dal fango, che Sciola ha posato l’orecchio sul ventre della terra e ne ha sentito battere il cuore. Nel lavorare la pietra, con la gentilezza di mani attente, scopre che pietre diverse rispondevano, come lui stesso dice, suoni differenti. Afferma, senza timore di smentita, che sono suoni siderali. I calcari hanno suoni liquidi, i basalti hanno voce robusta come il fuoco. Di ogni pietra, come di ogni persona, ne scopre il vibrato, immaginandone la partitura. Di ogni pietra ne scopre la docilità, la trasparenza, la leggerezza. Soprattutto ne scopre l’anima, la memoria e le fa cantare sotto il tocco delle sue mani. Nel 1996 dunque la sua ricerca artistica spalanca al mondo dell’arte uno scenario nuovo e inaspettato perché Sciola svela al mondo la magia del suono della pietra. Le pietre sonore vengono presentate per la prima volta in occasione del Festival Time Jazz di Berchidda, in Sardegna, e suonate dal percussionista Pierre Favre. In seguito, nel 2003, Sciola avvia una collaborazione con l’architetto Renzo Piano che sceglie una monumentale scultura sonora per la Città della Musica a Roma. La gioia piena arriva nel 2016, nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma, quando al cospetto del Mosè di Michelangelo, il maestro sardo libera il canto della sua ultima pietra.

A San Sperate, nel suo giardino, Sciola ha piantato le sue “pietre” perché mettano radici e fecondino il cuore dell’umanità, con l’auspicio che in questa nostra notte buia e senza luna, la comunità di San Sperate, sparsa per il mondo, sia la nostra stella polare.

La pietra non si preoccupava mai di dire la parola giusta

tutte le volte che sotto la carezza di Pinuccio narrava di sé,

della sua storia millenaria

e ci diceva che il Tempo

non esiste e non esistono i confini

tra il materiale e l’immateriale!

La pietra narrava di sé con umiltà e Pinuccio ci ha insegnato che solo con umiltà la possiamo ascoltare.

(www.paesemuseo.comwww.fondazionesciola.it – la foto è di Attila kleb e di Daniele Spiga)

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