Colpevoli in galera e colpevoli a piede libero.
Ecco la distinzione che Davigo fa dei cittadini italiani.
Carcerati in attesa di giudizio, che non hanno ancora parlato e scarcerati temporanei che hanno inguaiato se stessi, o qualcun altro. E’ il rovesciamento del principio di innocenza. Per Davigo si è colpevoli, fino a prova contraria.
Del resto anche la regina di cuori della Disney apparteneva forse al pensiero “davighiano”: “qualche testa rotolerà per questo!” esclamava, in ogni situazione. “Se lo scopre Davigo” diviene così la versione, riveduta e scorretta, delle parodie inquisitorie di Mel Brooks. Un marchio, un processo da cartoon, che guarda a tutto con sospetto, certo che il solerte magistrato, il Torquemada di turno, qualche magagna riuscirà a tirare fuori.
Davigo esaspera e rende macchiettistico il rapporto tra giustizia e verità.
Nella sua arsura di purificazione dimentica totalmente un aspetto drammatico della vicenda che lega il cittadino italiano al processo penale, ovvero la sua inefficienza, l’alea enorme che si nasconde dietro lo slogan “la legge è uguale per tutti”, la presenza di un numero di magistrati sempre più spesso estranei a logiche di comprensione.
Il mostro, la legge, può essere straordinariamente ottusa nei confronti della realtà.
Davigo sfugge al lato oscuro dell’inquisizione, ai suicidi in carcere, all’esiguità delle condanne che le inchieste sulla corruzione hanno portato, rispetto al numero sterminato di assoluzioni.
Il rapporto CEPEJ 2018 mette tutti gli operatori del settore giustizia di fronte all’impietosa verità dei numeri: l’Italia, in campo penale, è di fatto il paese europeo in cui deve passare il maggior numero di giorni perché si abbia una “risposta” da parte dello Stato, in materia di “criminal cases”.
Ben 329 giorni, oltre il doppio della media dei paesi europei.
Di fatto fanno peggio dell’Italia solo la Serbia, la Bosnia Erzegovina e Malta. Anche se volessimo parlare di prescrizione quindi, oggetto di un sempreverde dibattito circa il suo utilizzo dilatorio da parte degli avvocati, brutti e cattivi, dovremmo farci spiegare da Davigo perché le stime diffuse dai media e dagli istituti di settore raccontano di un 70% dei reati che si prescrivono nella fase delle indagini preliminari, quando gli avvocati, non hanno ancora praticamente avuto modo di intervenire.
L’obbligatorietà dell’azione penale, questo baluardo di presunta imparzialità del pubblico ministero, è ormai divenuto il velo ipocrita di una macchina giudiziaria che vede e non vede, persegue e dimentica, sa essere ligia ed inflessibile, quando vuole, ed allo stesso tempo è capace di assolversi dal proprio lassismo con estrema superficialità.
La galera a scopo di estorsione, l’interrogatorio che punta ad ottenere la confessione ad ogni costo, richiamano alla memoria una tetra vicenda, che c’entra davvero poco con la civiltà.
La società italiana dovrebbe avere finalmente il coraggio di voltare pagina rispetto al fenomeno giustizialista.
Il fallimento del regno del terrore processuale rende evidente il necessario ridimensionamento del ruolo della magistratura, come organo supplente delle scelte politiche della nazione.
Serve una gigantesca operazione di ripensamento dell’esaltazione acritica che ha eretto l’inquirente al rango di divinità laica, mentre attendiamo, da troppi anni, la doverosa separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, che garantirebbe finalmente una posizione paritaria ed equidistante tra accusa e difesa.
Voi però non diteglielo. Se lo scopre Davigo, magari, vi arresta prima che possiate provarci.