Piccola premessa, il calcio non è uno sport che mi fa impazzire.
Chiariamo, non che non mi piaccia il calcio in sé (anche io, lo ammetto, ho giocato le mie brave partitelle a calcetto). Quel che non mi piace è quella strana euforia calcistica, quella droga legalizzata, che i giorni delle partite, ma soprattutto quelli successivi, oscura l’obiettività del tifoso, lo esalta, rende le persone, anche le più stimabili (in normali contesti), simili a delle fiere affamate di pallone, pronte ad azzannare l’avversario.
Il campo di gioco, inutile dirlo, sono i social network. Facebook, poi, lo “Juventus Stadium” della rete.
Da quando ci sono in ballo i diritti televisivi, anche i meno attenti se ne saranno accorti, sono aumentati in maniera esponenziale i giorni in cui si gioca, tra campionato e coppe europee. Tradotto: le occasioni di distrazione di massa sono sempre più numerose.
Eppure, e il lettore non sa quanto mi costa dirlo, sarei favorevolissimo a calendarizzare una partita per ogni giorno della settimana. Anche in estate.
Ho notato che le sterili discussioni di questi ultimi tempi, circa i migranti prima e l’apertura domenicale dei negozi poi (la lista è in realtà più lunga ma mi sia concessa la sintesi), sono state magicamente oscurate dall’inizio dell’italico campionato.
Io non credo infatti che gli italiani siano per la maggior parte razzisti. Noto ancora un flebile barlume di vergogna nei loro occhi quando glielo fai notare.
I nostri connazionali hanno semplicemente bisogno di sfogare le proprie frustrazioni. Che sono tante.
Siamo un Paese abituato ad avere tutto, e senza neanche troppo sforzo. I nostri privilegi (perché di questo si tratta) sono dati per scontati. Gli stipendi ci vengono pagati, le pensioni erogate, il servizio sanitario funziona, male ma funziona. Però, c’è un però. Adesso siamo preoccupati, vediamo che la situazione peggiora, i nostri figli sono a zonzo, nella migliore delle ipotesi espatriano, le città sono sporche, non ci sono le risorse per i servizi pubblici essenziali e, di fatto, i soldi nelle nostre tasche sono sempre meno. Abbiamo paura, tanta paura. E adesso che il terreno sotto i piedi un po’ ci sta mancando (non mi soffermerò sulle ragioni che hanno portato l’Italia e non essere più un Paese globalmente competitivo), siamo convinti di essere all’improvviso diventati poverissimi, senza diritti, bistrattati e, soprattutto, certi di aver toccato il fondo del barile. Che tanto peggio di così. A differenza loro, dei migranti a trentacinque euro al giorno con gli alberghi 5 stelle pagati, wi-fi e SKY. Perché loro si e io no? #primagliitaliani.
Nel Paese in cui vorrei vivere questo errato sentire comune sarebbe placato, messo a tacere e soprattutto analizzato dalla classe politica che vorrei. Una classe politica seria, capace di fermarsi a ragionare, competente e che, prima di spararla grossa su Facebook, si fermasse a riflettere sugli effetti che le proprie esternazioni potrebbero determinare sull’elettorato di grana grossa. Una classe politica capace di proporre soluzioni, attuarle, e poi magari esaltarle anche via web.
Non è così. Qualcuno forse se n’è accorto. Nell’era dei social network vince chi meglio li sa utilizzare (spesso giocando anche sporco). Chi veicola i messaggi più diretti, che più accarezzano gli istinti del distratto fruitore, tra una ricetta e un amen alla Madonna. Le soluzioni, le risposte, non servono, sono inutili e gli effetti, purtroppo, di lungo periodo.
I nostri degni rappresentanti istituzionali questo lo hanno capito e ci sguazzano.
In questo campo di gioco, purtroppo, non c’è partita e l’elettorato che si lascia ingannare è sempre più numeroso. E arrabbiato.
Il vero problema quindi, tornando al paragone calcistico, è la totale assenza di regole nel campo di gioco virtuale. Manca l’arbitro, mancano i guardalinee. Si può commettere ogni tipo di fallo senza timore d’espulsione o squalifica. E questo, senza che ce ne accorgiamo, sta determinando (in tutto il mondo purtroppo), un imbarbarimento della pubblica opinione che, nella cabina elettorale, è pronta a concedere i propri like a quanto di peggio offra il mercato.
In un mondo virtuale senza regole, al momento, in cui vince chi la spara più grossa (e possibilmente più breve perché il lettore non ha voglia di approfondire), sarebbe necessario lo spirito critico, la capacità di distinguere il vero dal falso, il razionale dall’irrazionale. Non fermarsi a dire: “l’ho letto su facebook” (una volta era “lo ha detto la tv”) e stendere con tale affermazione una pietra tombale sul necessario confronto con chi la pensa diversamente da noi. Ma siamo in Italia e insegnarci lo spirito critico, abituarci al confronto, sarebbe un compito della scuola. Ma questa, purtroppo, è un’altra storia.