L’esperienza di governo del giovane M5S sta presentando un conto salato allo scarto tra populismo d’opposizione e realtà.
E’ di poche ore fa la notizia dell’assoluzione in primo grado del sindaco di Roma Virginia Raggi, per il processo che la vede imputata, in relazione ad alcune nomine che si sarebbero configurate come reato.
Una volta entrati nei meccanismi del governo e della pressione del potere, anche gli esponenti del M5S hanno dovuto fare i conti con una realtà che dall’opposizione extrasistemica hanno usato a piene mani: la giustizia italiana sa essere tremendamente ingiusta.
Ciò che lascia sgomenti nell’atteggiamento dominante all’interno del Movimento, o meglio del partito 5S, è la mancanza di volontà della sua classe dirigente di ammettere uno scarto evidente tra contraddizioni politiche e purezza giudiziaria.
L’Italia è il paese in cui è quasi certo che occupandosi di vicende politicamente scabrose, nodi irrisolti, problemi sclerotizzati, ci si ritrovi indagati per abuso d’ufficio, falso, strage colposa o altro.
Il sistema di giustizia penale italico, con la sua bulimica e manzoniana capacità di essere urlante e dettagliato, è un mostro che sconta la distanza infinita ed incolmabile tra azione compromissoria reale ed “honestà” ideale.
Ecco dunque che anche la povera Virginia, tanto vaso di coccio tra vasi di ferro, ha dovuto subire gli effetti di questo sistema, in modo non dissimile da come li hanno subiti altri prima di lei.
Pochi ricordano la gogna e la sorte subita da Ignazio Marino, un galantuomo triturato dalle azioni mediatiche e giudiziarie, di cui ad oggi non saprei citare nemmeno una sola nefandezza contraria al codice penale. Eppure Ignazio, ai tempi in cui gestiva il potere amministrativo romano, era detto “Il Torchio” e sembrava che avesse il suo ufficio al pozzo dei rospi.
L’Italia è così: un paese in cui chiunque provi a toccare qualcosa, a muoversi contro la corrente, a entrare in un nodo apparentemente gordiano, si può trovare invischiato nelle maglie della magistratura e della giustizia, entrando nel girone infernale del processo, quel luogo in cui realtà e risultanze probatorie, fatiche, arringhe, denari, patimenti e attese logoranti, sono la norma, e la certezza della verità è un ufo.
Noi italiani siamo così: dolcemente complicati. L’obbligatorietà dell’azione penale, la quasi certezza dell’impunità per i pubblici ministeri che sbagliano, fanno il resto.
In Italia, come direbbe qualcuno, siamo nel paese delle mezze verità.
Una riforma del processo penale appare ormai indifferibile.
Occorre agire sul falso mito dell’obbligatorietà, ma serve legare i magistrati al concetto di effettività. Non possiamo più permetterci un clima politico in cui ogni sospetto, ogni accusa, ogni processo, sia percepito come l’attesa di una inevitabile condanna.
Non possiamo più avere le nove colonne d’ordinanza, in prima pagina, quando si sbatte il mostro in copertina, e il trafiletto in ventesima, quando giunge la notizia dell’assoluzione, magari mentre il moribondo, ormai anziano e canuto, è impegnato in un altro contesto, avendo dovuto lasciare la vita pubblica per disperazione.