L’Italia, oltre ad essere un paese povero dal punto di vista economico ed immobile dal punto di vista sociale, risulta essere anche un paese vecchio, con un notevole declino demografico.
Gli ultimi dati Istat sulla popolazione residente (dati al 1° gennaio 2018), segnalano che l’età media è di 45 anni e questo dato è il risultato di una struttura in cui solo il 13, 4% ha meno di 15 anni, il 64% ha tra i 15 e i 64 anni, e il 22,6% ha più di 65 anni.
Confrontando tale quadro con quello del censimento del 1991, emerge l’aumento della popolazione anziana con il raddoppio degli ottantenni (da i milione e 995mila unità a 4 milioni e 207mila).
Allo stesso tempo continua il calo delle nascite in atto dal 2008.
Per il terzo anno consecutivo, i nati sono meno di mezzo milione (458.151, -15 mila sul 2016), di cui 68 mila stranieri (14,8% del totale), anch’essi in diminuzione. Questo significa che in Italia si fanno pochissimi figli o non se ne fanno per nulla. Risulta allora doveroso interrogarsi sui motivi di questo trend che rischia di diventare un dato strutturale.
Gli italiani e le italiane evidentemente non si sentono nelle condizioni di procreare: la disoccupazione e la precarietà, la dismissione del Welfare e l’assenza di politiche sociali e familiari scoraggiano la scelta a favore della maternità e della paternità.
Basti pensare alla carenza strutturale di asili-nido nei comuni di residenza, ai ritardi con i quali partono le mense scolastiche, agli orari ridotti nelle scuole pubbliche che non sono in grado di impegnare i bambini in attività sportive e/o ricreative extrascolastiche, ai costi dei campi estivi.
Secondo quanto emerso dal rapporto dell’Ispettorato nazionale del lavoro nel 2017, il 5% di tutte le donne che si sono licenziate nel 2016 lo hanno fatto per i costi troppo elevati per la gestione dei figli ed il 20% per la difficoltà a trovare un posto in un asilo-nido.
Un ulteriore rapporto curato dall’Istat ci informa, infatti, che nei nidi italiani ci sono in media 20 posti ogni 100 bambini e che c’è 1 posto su 5 al Sud e 1 posto su 10 al Nord.
Come purtroppo spesso accade, il Sud resta penalizzato e questo divario non fa che aggravare la condizione femminile.
La legislazione italiana a sostegno delle madri è, d’altronde scarna, pressoché assente: le politiche ispirate alla logica dei bonus bebé si sono rivelate inefficaci perché forniscono solo contributo economico una tantum e spesso riguardano le donne che hanno un reddito annuo molto basso (la graduatoria avviene sulla base del modello ISEE); le altre rimangono prive di qualsiasi tutela o copertura e devono barcamenarsi tra lavoro e famiglia.
Insomma, nel nostro paese non viene approntata nessuna seria politica di contrasto alla denatalità, anzi.
Dobbiamo ricordare che il c.d. Fertily day, fu una iniziativa assolutamente fuorviante ed inopportuna, nell’ambito della quale furono veicolati messaggi sbagliati collegati al Piano nazionale per la fertilità: la tesi è che la denatalità mettesse a rischio il Welfare mentre sappiamo che è vero il contrario.
Facendo del facile terrorismo psicologico, si sono costruite “colpe al femminile” come quella di rimandare troppo l’esperienza riproduttiva poiché, partendo da un miglioramento dei livelli di istruzione, le donne preferirebbero l’affermazione personale e la “carriera” alla maternità.
Così si sono scaricate tutte le responsabilità sulle donne. La denatalità, al contrario, dovrebbe essere letta nei termini di insicurezza sociale e di precariato al femminile che impediscono alle donne di autodeterminarsi sia nella sfera affettiva che in quella professionale.
Oggi, infatti, più che di gender gap, dovremmo parlare di blacklasch: dopo la stagione delle lotte per la rivendicazione di nuovi diritti e nuove libertà, le donne stanno arretrando. I dati sull’occupazione femminile, i meccanismi ricattatori (la gran parte delle dimissioni nel settore privato è dato dalle donne in gravidanza), la mancanza di Welfare, la difficoltà a conciliare i tempi di lavoro con quelli familiari, pesano sulle donne che quasi sempre sono costrette a scegliere se sacrificare la propria vita affettiva o rinunciare al lavoro.
La disuguaglianza di genere si traduce spesso in segregazione occupazionale ed in divario retributivo che sono, tra l’altro, il frutto di una diseguale ripartizione dei compiti domestici e familiari: di recente, l’Ocse ha classificato l’Italia al quart’ultimo posto tra i 35 paesi sviluppati poiché le donne nel nostro paese si sobbarcano la maggior parte di questi compiti arrivando a spendere circa 22 ore in più alla settimana rispetto agli uomini. Insomma.
La maternità sta diventando un “lusso”, per i costi che comporta oltre ai sacrifici in termini di tempo, energie e rinunce. E i padri? Di padri, non a caso, si parla molto poco.
Oppure se ne parla sole se separati e si usa il termine bigenitorialità esclusivamente quando le famiglie esplodono. Dal canto suo, la politica attuale cavalca la narrazione del padre separato, povero e privato dei figli, senza occuparsi seriamente della paternità o della genitorialità condivisa (v. ddl Pillon).
Se guardiamo alla legislazione in tema di congedi parentali, infatti, i risultati sono sconfortanti. Soltanto nel 2012 la legge n 92 ha istituito il congedo di paternità obbligatorio e facoltativo per i lavoratori dipendenti da utilizzare entro e non oltre il 5° mese di vita del bambino.
Peccato però che si tratti di soli due giorni che sono stati portati a quattro dalla legge di bilancio del 2017: un giorno per la nascita, uno per stare in ospedale, il terzo per il rientro a casa e il quarto per le commissioni e la scorta dei pannolini….La trafila per ottenerli non è agevole e l’obiettivo è quello di evitare che i neo-papà sprechino ferie.
Il padre ha altresì diritto ad un giorno – dico un giorno – di congedo facoltativo da utilizzare solo se vi rinunci la madre (!).
Ci sono poi i congedi parentali previsti dall’art. 32 della legge 8 marzo 2000 n. 53 – Testo Unico sulla maternità e paternità – : ciascun genitore ha diritto ad un’astensione dal lavoro per un periodo massimo di 6 mesi, anche frazionati, entro i 12 anni di vita del bimbo. C’è un incentivo, dunque, che però si scontra con l’aspetto economico poiché lo stipendio è ridotto al 30%.
La prassi dimostra che spesso si sceglie “il male minore”: siccome di solito è la donna a guadagnare di meno, è lei che usufruisce dei periodi di astensione più lunghi.
L’Europarlamento sta da tempo cercando di aumentare i periodi di congedo mentre in molti altri paesi europei, come la Svezia o la Norvegia, i congedi obbligatori sono già consistenti anche per neo-papà ed i congedi facoltativi prevedono una piena retribuzione.
Si rendono necessari, allora, interventi ma non solo a sostegno delle madri poiché questo orientamento confermerebbe l’idea per la quale le donne hanno una maggiore attitudine verso il lavoro di “cura” (la cosiddetta filosofia del care) costringendole comunque a lavorare di più dentro casa.
Al contrario, sarebbe necessaria una riforma della società che coinvolga anche gli uomini prevedendo, per esempio, congedi di paternità obbligatori nel settore pubblico e privato al fine di consentire una maggiore la condivisione delle responsabilità familiari.
È questa la “rivoluzione culturale”, il perno intorno al quale dovrebbero ruotare idee e proposte politiche. Fatta la paternità, facciamo i padri, riconoscendo maggiori diritti e doveri. Soltanto in questo modo, forse, le donne ritorneranno a fare figli nel nostro paese.